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KEEP CALM AND MAGICABULA CHITESENCULA Poster | NICK J | Keep Calm ...

Intendiamoci: ci siamo dentro, insieme.

Anche se c’è un abisso tra me che scrivo tranquilla e una colf straniera, che magari abbia figli a carico e datori di lavoro che si pongono queste domande qui.

Ma io intendo dire che da tutta questa faccenda, per citare il bel titolo di un romanzo che non ho letto, “nessuno si salva da solo”. Pensiamoci un attimo: dalla pandemia e conseguente crisi economica ci potremmo salvare noi ma, se non lo fa anche il resto del mondo, sempre in una società di merda ci ritroveremo a vivere, quiiindiii…

Esprimo l’ovvio perché a volte pare che qualsiasi cosa succeda sia un affronto diretto a noi, proprio a noi: la pandemia è arrivata perché avevamo deciso di svoltare proprio quest’anno! Per una volta che volevamo avviare un’attività, fare quel viaggio a lungo posticipato, conoscere proprio una persona speciale… E finché ci ridiamo su in videochat va benissimo, ma, potenza del mainagioia-pensiero, sta’ a vedere che un pochetto ci crediamo davvero.

Inoltre, sondaggio: quanta gente conoscete che è strasicura di essersi presa il virus, magari mesi prima che si diffondesse? Io, modestamente, ho una vicina che mi ha onorato della miglior giustificazione di sempre per non essersi presentata al mio compleanno: aveva il covid già il 12 febbraio! Ce l’aveva da una settimana, peraltro: la prima malata della penisola iberica? Avrebbe perfino contagiato il suo povero gatto, che è morto per quello. Una conoscente, invece, pensa che la malattia sia venuta prima a suo nonno, che come conseguenza ha avuto un infarto (noto effetto del virus, ma per fortuna il signore adesso sta bene), e poi ha infettato lei, che si sente “una schifezza” da settimane. La ammiro sul serio, perché è coscienziosa: si sveglia ogni giorno alle 6 del mattino per poter girare un po’ da sola e non contagiare nessuno. Tanto, pure nel suo caso, è roba di mesi fa.

Con tutto il rispetto per i degenti veri, e i fenomeni più che comprensibili di autosuggestione, quando sento tanti potenziali malati che non hanno potuto fare mai un tampone (purtroppo), mi viene da pensare a chi crede nella regressione, cioè nella possibilità di riscoprire le sue vite passate: fateci caso, le signore sono state tutte Maria Antonietta e Cleopatra, non so in che ordine (ah ah ah). Mai nessuno che fosse l’incarnazione di Tre Palline, mitico personaggio del paesello vicino al mio! (L’origine del soprannome non mi è del tutto chiara, e forse è meglio che resti avvolta nel mistero.) Mi sa che, nella mia scalcinata metafora, la cosa più vicina a Tre Palline sarebbe la mia curiosa allergia che mi rendeva sensibile agli odori, e che, faccio sommessamente notare, è piuttosto diffusa con una gran varietà di sintomi, alcuni simili a quelli provocati dal covid.

Precisiamo: è importantissimo pensare a noi, alle conseguenze che un qualsiasi fenomeno abbia sulla nostra vita. Uno dei problemi che abbiamo riscontrato durante la fase di reclusione totale è una visione distorta dello spirito di sacrificio, che fatichiamo a scrollarci di dosso: usciamo a fare una passeggiata nelle ore previste, rispettando le distanze? “Zoccola (o coglione), è per colpa tua che sono chiuso in casa!” E no, non fingiamo: il semplice messaggio “rispettiamo le norme di sicurezza” è sconfinato spesso nella paranoia totale. Insomma, l’abnegazione che ci hanno inculcato fin dalle elementari col crocifisso in aula, e che seguiamo fedeli alla linea specie se siamo donne, diventa una scusa per misurare le azioni altrui. Una rivalsa, se vogliamo. Perché, “come sempre”, la gente onesta fa il suo dovere e subisce solo torti, signora mia. E chi si permette di cercare un minimo di conforto in questi tempi difficili sta facendo un torto proprio a me, persona perbene.

Ecco, forse è di questi tempi difficili che possiamo fare un uso ponderato dell’espressione romana del titolo, che per la verità in lande partenopee ho sempre sentito sotto la forma più gender neutral: “Ma chi ti caca!”. O “Chi ti calcola”, se proprio non siamo per il turpiloquio. Fatto sta che, come ho detto altrove, uno degli insegnamenti più importanti che mi abbia trasmesso mio padre riguardava un’occasione in cui, da ragazzina, temevo di fare una figuraccia*. Al che il mio genitore 2 mi rassicurò con questo pensiero di grande conforto per un’adolescente: “Il mondo ti caca meno di quanto immagini”. Oddio, magari “l’autore dei miei giorni” (come si definisce lui, prima che lo mandi a quel paese) usò espressioni più forbite: ma questa versione, francamente, ci piace.

E infatti secondo me dobbiamo cercare la quadratura del cerchio, l’apostrofo rosa tra le parole chi te se ‘ncula (che poi è aferesi, ma vabbe’): dobbiamo, cioè, essere consapevoli degli effetti del mondo su di noi, senza pensare in ogni momento che il mondo giri intorno a noi. Ce la si fa? Diciamo che ce la si può fare.

Ma oggi sono riconoscente a mio padre (che per qualcuno, invece, avrei ammazzato nel primo capitolo del mio romanzo), e voglio raccontare un altro suo insegnamento. Me lo trasmise davanti allo scivolo acquatico che, alla veneranda età di quindici anni, avevo paura di affrontare: “Se una cosa la possono fare tutti a prescindere da caratteristiche personali e preparazione previa, puoi farla anche tu”.

Quindi posso anche scrollarmi il mondo dalle spalle, come fanno altri più illuminati, e salvarmi dall’illusione di reggerlo io sola! E, già che ci sono, posso anche smettere di prendere tutto sul personale e considerare che il mio problema è in realtà collettivo. Come ne usciamo, insieme?

Mai come in questo momento, dunque, bisogna pensare alla salut… No, scusate, l’italiano non restituisce tutto il senso polemico, ma distaccato, che vorrei trasmettere alla frase.

Insomma, allora: da Trieste in giù, penzate ‘a salute!

 

(Per restare in tema)

 

 

 

*in realtà ero una figuraccia ambulante, ma mi pareva di capire che diventare “una persona normale”, come mi consigliavano certe sollecite compagne di classe, passasse per avere un sacro terrore delle figure di m…

 

Italiano Medio, finalmente online il trailer del film di Maccio ... Il compagno di quarantena ha delle questioni da risolvere altrove, e allora riscopro per qualche giorno quanto è bello starmene per conto mio.

Rifletto su ciò che mi sta insegnando questa reclusione forzata (perché non bisogna romanticizzarla, ma a me sì che sta insegnando molto), sulla vita che vorrei e gli errori che non mi va di ripetere. Per esempio, mi sto rendendo conto di un particolare odioso: in dodici anni a Barcellona mi sono ritrovata spesso a rassicurare il compagno di turno su qualcosa che lui non voleva e io sì.

Nomi inventati a parte, queste frasi le ho pronunciate quasi alla lettera:

“Ma no, Loris, tra di noi non c’è niente di serio! [È solo che ci frequentiamo da un anno e non vediamo nessun altro, ma vabbe’]“.

“Dai che usciamo solo un’oretta, Yusuf: ti prometto che il venerdì sera a Barcellona non è Satana! [E ci imbattemmo in una coppia ubriaca, che copulava contro la facciata di una chiesa]“.

“Ma figurati se sono rimasta incinta, Bob! [Peccato che ti mancava qualche lezione sulle api e sui fiori, facevi tanto l’intrepido e adesso *Lucarelli intensifies* paura, eh?]“.

Già vi vedo con la diagnosi pronta: questa mia passione per la solitudine mi ha portato a scegliermi compagni che mi garantissero di tornare single nell’arco di qualche mese. Anzi, parafrasando il post precedente, troncare in tempi record era solo il best case scenario!

Vi deluderò, psicologi della domenica: ho fatto un’analisi sociologica (prrr) delle mie conoscenze barcellonesi, e in effetti tutto dipende da chi mi capiti di frequentare quando interrompo la mia sostanziale, e sottovalutata, asocialità.

  • All’inizio, quando non avevo ancora trent’anni, mi ritrovavo per coinquilini dei nordici di passaggio o delle artistoidi della domenica, che mi presentavano amici affini a loro: immaginerete la stabilità di questi ultimi, su tutti i fronti!
  • In seguito, per questioni di associazionismo, sono stata costretta a frequentare di più la comunità italiana: per esperienza diretta vi garantisco, dunque, che non esportiamo solo i cervelli, che in realtà si saranno dati alla fuga per conto loro molto prima che i loro proprietari prendessero l’aereo.
  • Adesso, da quando per opportunismo sono finita in centro, sto avendo un regresso ai nordici di passaggio, che spesso di politica e questioni di genere ne capiscono tanto quanto habblan espanniowl.

In terre catalane non ho avuto occasione, dunque, di trovare la quadratura del cerchio: un uomo che fosse politicamente impegnato o intellettuale  q.b., senza avere i progetti di vita di un ragazzino di sedici anni. Intendiamoci, è sempre bello conservare il fanciullino interiore, ma forse non è auspicabilissimo girarsi tutti i chiringuitos del mondo e trombarsi pure i cannolicchi a mare (ma giusto per dimostrarti che puoi), finché non ti fermi dove t’impone la sciatica e ingravidi una trentenne a cinquant’anni.

Allora ho pensato che fosse questione di stare a Barcellona. Scriverò un post a parte sulla differente percezione del tempo e delle priorità tra paese di nascita e paese d’adozione: per il momento ammetto che, quando si espatria, è un sollievo evitare in parte la pressione sociale che si respirerebbe nella comunità d’appartenenza. Peccato che all’estero rischi di fare a quarant’anni la stessa vita che conducevi a venti, ma con la metà dei lavoretti di merda a tua disposizione. Finisce quindi che torni in Italia a “dare una mano” nell’attività di famiglia, e a fare da baby-sitter ai figli, ormai quasi adolescenti, dei congiunti rimasti là.

E se fossi rimasta io, invece, in Italia? In quel caso, secondo un rapido sondaggio tra le conoscenti che non sono emigrate, l’alternativa statisticamente più gettonata allo scenario di prima sarebbe stata: convolare a giuste nozze con un Tranquillone.

Non è un rischio che m’invento così, perché prima di partire ero circondata da esponenti di questo incrocio tra il “bravo ragazzo” e il bomber  (due figure in fondo sovrapponibili). Un tipo simpatico e praticissimo, con la vita tutto sommato programmata: magari se lo fa, il viaggetto “senza le fidanzate” a Cuba, però non ci vivrebbe mai. È un mito nel darti una mano con automobili scassate e mobili IKEA, che da sola, va da sé, non ti sapresti montare. Senza contare, si diceva, la simpatia!

Che ne so, è alto un metro e una vigorsol e pesa cento chili? Il dettaglio non lo scoraggia dallo sfottere la tua altezza e il tuo peso (che poi, “magari avessi qualche chilo di troppo nelle parti giuste“…) e sindacare sulla quantità di pelo che porti addosso. Anzi, studiando le coppie miste tipa sveglia-Tranquillone (che di solito all’estero resistono poco), noto un interessante fenomeno: quanto più la tipa supera il compagno per avvenenza e qualifiche, tanto più sarà bombardata di battutine passivo-aggressive, diventate ormai un elemento del gioco di coppia.

Ma tranquilla, tipa sveglia che ci sei cascata: il Tranquillone mica lo fa solo con te! Quando parla con gli amici ed è sicuro che tu non senta, poco ci manca che si abbassino tutti la cerniera dei pantaloni e ingaggino duelli di “gomorriana memoria” (popopo). Non manca qualche accenno, en passant e tanto per ridere, alle “nere in tangenziale”, però le più gettonate sono le svedesi immortalate su Instagram quella volta a Mykonos, prima che scappassero ridendo dall’inglese atroce di questi piccoli mediterranei chiassos… ehm, di questi latin lover! Perché il Tranquillone questo è, a sentire il resoconto delle sue vacanze: anche quando, sbiadita l’abbronzatura, passa di nuovo per il timido della comitiva. E se le straniere sono bone, gli stranieri sono quasi sempre delle mezze calzette, specie se neri e giovani, con il fisico scultoreo: quella è costituzione, buona al massimo per comprarsi un giocatore “potente ma senza tecnica” al Fantacalcio. Niente, infatti, ha il fascino della stempiatura precoce del Tranquillone, e della panza che mammà si assicura di mantenere della stessa misura da quando il Nostro aveva cinque anni, intanto che la sorella rifaceva il letto anche a lui. E non ci sarebbe niente di male almeno su stempiatura e panza, se il nostro Eroe della strada non fosse così pronto, ribadiamo, a giudicare i presunti difetti della ragazza di turno: però “glieli perdona”, ci mancherebbe, vista la fatica fatta nel conquistarla! All’inizio, infantti, se l’è dovuta lavorare per bene, a botta di messaggini strategici e conti pagati al ristorante. Pure dopo, comunque, lei “non ha mai finto l’orgasmo”, perché il Tranquillone ci sa fare. Mica è come l’amico (è sempre un amico a fare ‘ste cose) che l’estate scorsa ha incassato con la testa nella sabbia quella turista ubriaca a Barceloneta: si vedeva che il troione (ma è un modo di dire, fattela ‘na risata) era sceso dall’albergo con quel pensiero, e in ogni caso il Tranquillone sarà anche l’ultimo dei gentiluomini, ma certe cose non le fa. Lui sì che sa come si tratta una donna: ci provasse pure, la fidanzata di turno, a trovarne un altro che non la butti direttamente nell’indifferenziato! Anche se, sospira il Tranquillone, dovrebbe provare anche lui ogni tanto a “fare come gli altri”: a essere troppo buoni, ci si rimette sempre, e lui è stato cattivone solo con “quelle che se lo meritavano”.

D’altronde, una volta trovata “la ragazza giusta”, quella acqua e sapone della porta accanto, al ritorno dalla luna di miele il Tranquillone scoprirà all’improvviso che i letti non si rifanno da soli, stirare una camicia non è facile come sembra, e una cosa è gratinare un risottino alla Cracco per cinque amici una domenica all’anno (d’altronde i migliori chef sono uomini) e un’altra buttare la pasta per due ogni santo giorno: quindi sarà il primo ad ammettere che in casa “la sua signora fa di più”, senza per questo porre rimedio alla cosa. Lui, comunque, “ha sempre dato una mano”.

Ma la “signora” strizzerà l’occhio alle amiche e darà un bacio alla bambina che mantiene in braccio, e che è “la gioia di papà”: alla fine si sente fortunata, perché il Tranquillone è un pezzo di pane. Fa tanto lo sbruffone ma poi è un tipo “a posto”, che parla parla, ma intanto è lavoratore e ci tiene alla famiglia. Che fa, se qualche volta torna alle due di notte dalla “partita di calcetto”? I ragazzi si saranno fermati a bere una cosa, l’importante è che lui torna ogni volta. E comunque, in caso, la zoccola è sempre l’altra.

Lo so, la disparità economica tra donne e uomini è tale che il Tranquillone è sempe ‘na sistemazione, direbbe un comico salernitano, e nel paese dimenticato dal femminismo meglio uno tutto fumo e niente arrosto, rispetto a uno che ti fa arrosto. So pure che, con questa verità inoppugnabile, la discussione per molte finisce lì.

Beh, che dire: io che ho il privilegio di permettermi una casa vuota e un frigo pieno, in un aut aut tra il Peter Pan con la valigia e il Tranquillone con l’auto in leasing, sceglierei il silenzio.

È meraviglioso, il silenzio.

So però che le pressioni sociali ed economiche non sempre concedono a tutte una decisione ponderata: spero comunque che scegliamo la cosa più vicina alla nostra felicità.

Ma una felicità che non passi per essere te stessa e per circondarti di gente che ti rispetta, invece di “amarti a modo suo”, mi chiedo proprio che felicità possa essere, e spero di non scoprirlo mai.

Ho un po’ di amici in fissa col worst case scenario.

In chat lo nominano proprio in inglese, anche se è ovvio che lo “scenario”, a Shakespeare, gliel’abbiamo prestato noi! In ogni caso, specie di questi tempi, ci si sente meglio a prefigurarsi la peggiore delle ipotesi, in ogni situazione. Lo capisco e a dirla tutta mi sembra un’operazione ottimista, quasi rilassante: come si suol dire, ci si prepara al peggio, nella speranza evidente che non si verifichi.

Vi ho già spiegato che il mio unico problema con questo modo di fare è che si finisce per confondere la peggiore delle ipotesi con quella più probabile: se il worst case scenario diventa ai nostri occhi il finale più plausibile, non solo non ci stiamo facendo un favore, ma rischiamo anche di avere ragione! Perché, come vi spiega il link su cui avrete senz’altro cliccato, generiamo una profezia che si autoavvera.

Adesso mi chiedo: e se il vero coraggio consistesse nel pensare al best case scenario?

Perché, vedete, immaginarsi il meglio di una situazione (ma un esito attendibile, eh, non un miracolo!) vuol dire anche avere il coraggio di ammettere che questo quadro così ottimistico potrebbe comunque non coincidere con ciò che speravamo! Esempio stupido: se ho un manoscritto da pubblicare, nella peggiore delle ipotesi posso temere che non ci riuscirò mai (probabilissimo!) e nella migliore… che ci riuscirò! Però, a sentire ciò che mi predicava la buonanima di mia nonna, dovrei aspirare direttamente a vincere il Nobel per la letteratura (ogne scarrafone è bello a nonna soja). Converrete con me che non sarebbe una mossa molto scaltra, immaginare quello come migliore esito possibile per il mio manoscritto. Magari farei prima ad aspirare a vincere Miss Universo (a quanto ammonta il premio?) o ad ammettere qualcosa che, scommetto, rode anche a voi: amiamo tanto pararci il culo con la peggiore delle ipotesi, perché la migliore che abbiamo in mente non è realistica. Quindi, se rischiamo di scambiare la peggiore delle ipotesi per la più probabile, l’errore che facciamo più spesso col best case scenario è confonderlo con la soluzione che desidereremmo (e già fidarci del nostro giudizio in merito mi sembra ottimistico!), quando si tratta di un’operazione più complessa e ponderata.

Pensate alle coppie che sono state provate da questi mesi, che si trattasse di un allontanamento forzato, di una convivenza prematura o, peggio ancora, di una convivenza e basta! Scherzi a parte, in alcuni casi la migliore delle ipotesi e la peggiore potrebbero coincidere: una bella rottura strategica e passa la paura! Solo le persone coinvolte potranno sapere se restare insieme a oltranza sia lo scenario migliore, o il peggiore. Certo, a volte è difficile guardarsi con gli occhi di prima, specie quando siamo stati costretti a vederci al massimo su Zoom, oppure quando, al contrario, abbiamo scoperto cosa sia capace di fare l’altro pur di aggiudicarsi l’ultimo panetto di lievito al supermercato

Quindi, ecco a voi un esempio di best case scenario che, lungi dall’essere ottimista, mi diventa coraggioso anziché no: a volte, nella migliore delle ipotesi, possiamo giusto restare amici. E ci vuole un bel coraggio ad ammetterlo!

Insomma, voglio proprio vedere cosa combiniamo se ci troviamo alle prese con una situazione che magari è la migliore possibile, ma non è quella che volevamo: anzi, a ben vedere non ci contempla proprio nel quadro!

Davanti a siffatti scenari, worst o best che siano, lascio perdere le espressioni in inglese o le previsioni più o meno azzardate, e auguro a voi e a me un magnifico, tempestivo cambio di scenario!

The art of storytelling — and why I agree with Tyrion Lannister Quasi sette anni fa, io stavo male e il mondo stava bene.

O così mi pareva allora. Adesso il mondo sta male, e io… io ci sto male, al massimo, e voglio fare quel poco che sta in me perché non sia tanto così. Partendo, però, dalla pace che ho imparato a trovare in quella crisi di sette anni fa.

Pensavo a tutto questo perché, come spesso mi accade nella vita, una specie di anacronismo mi permette ogni tanto di fingere che in questi mesi difficili non stia succedendo proprio niente di nuovo. In questo caso, mi sta aiutando il bar etiope, quello aperto un annetto fa nel Born. Per la verità, non sono mai arrivata a entrarci e a sentire un concerto, per com’era affollata la sala. Per non parlare delle volte che ho trovato tutto chiuso senza preavviso: ma cavoli, almeno da un punto di vista virtuale, come pianificavano le cose loro…! Almeno su Facebook: avevano organizzato un evento per ogni concertino di musica africana (con artisti di diversi paesi del continente) che si teneva ogni sabato sera. Anche con la quarantena, le notifiche non hanno mai smesso di arrivarmi, così il sabato pomeriggio alle 17, quando mi si accende la spia sul cellulare, mi dico: adesso metto addosso qualcosa di carino e vado lì, sperando che oggi non ci sia troppa gente nel locale, o folla per strada.

Sì, mi prendo per il culo da sola. Come facevo a vent’anni, con mio nonno sottoterra da almeno un annetto: da una casa vicina sentivo ancora tossire qualcuno che in precedenza avevo sempre scambiato per nonno (che soffriva come me di rinite allergica), e anche allora che non avevo più speranza che fosse lui, me lo figuravo al piano di sotto, intento a maledire insieme a me la gramigna del campo di fronte casa nostra.

Ieri per prendermi per il culo ho visto, con un anno di ritardo, la reunion di chiusura di Trono di Spade: mi era rimasta così tanta rabbia per com’era finito male, che potevo ancora fingere fosse, beata me, il peggior dispiacere che ricevessi da molto tempo! (Magari subito dopo i risultati del mio test antimulleriano, ma quelli almeno li sto superando.) Allora ieri ho smesso di chiedermi per un’oretta che fine abbiano fatto i lavori di amici e non, i loro soldi per pagarsi l’affitto e il senno di chi divide con me una casa che può abbandonare solo un’ora al giorno. Invece di tutto questo, come ai “bei vecchi tempi” mi sono chiesta in napoletano chi ha cecato i due David, cioè come gli sia venuta l’idea di trasformarmi la khaleesi in una psicopatica a rota d’incesto (e sì, espatriare è complicato per tutti, Dany, anch’io a volte ho sputato fuoco!). Così, mentre vedevo tutti i membri del cast abbracciarsi sul palco di Conan O’Brien, mi sono ricordata del motivo per cui la storia che avevano incarnato era così importante per me.

Come vi ho già raccontato (e comunque si capiva), durante questa mia crisi orrenda di sette anni orsono non riuscivo a leggere libri di attualità: solo fantasy o giù di lì. Tipo, che so, le teorie junghiane! Ok, ok, scherzo: in questo caso mi riferisco a The Hunger Games e, appunto, a Trono di Spade. Quando mi sentivo sull’orlo del collasso aprivo quei mattoni stampati in carta economica, e pensati per un pubblico giovanile o amante dei draghi. Quindi vivevo le familiari inquietudini di John Snow, che si sentiva fuori posto ovunque andasse, o le lotte per la libertà dei popoli della prima Daenerys Targaryen (*scatta l’emoticon a forma di cuore*). I miei capitoli preferiti erano quelli sulle peripezie di Arya Stark, girovaga in questo medioevo fantastico, ma zeppo come quello vero di malattie ed eserciti in lotta.

Quando ho visto tutto questo rappresentato più che discretamente su uno schermo, e per almeno due o tre stagioni buone, mi è parso una bella storia paradossale: intanto che io stavo accucciata su un letto a pugnalare un panettone per pranzo (mangiavo solo le parti al cioccolato, e in realtà quello che divoravo erano queste pagine in edizione economica), tutta quella gente della troupe che adesso, nel video che osservavo, applaudiva i volti noti sul palco, aveva lavorato, guadagnato e vissuto otto anni in funzione della stessa storia.

Almeno su questo, il Tyrion Lannister dell’ultimissima puntata ha ragione: la gente segue le storie. La mia è quella di una crisi che ha superato le crisi: tutte quelle che vi hanno fatto seguito, compresa questa qui. Che è stata sconfitta dall’incredibile privilegio (il cui desiderio è sorto allora) di poter fare il mestiere che amo: raccontare. E vi ho raccontato a lungo di quando, sette anni fa, avevo perso il filo di qualsiasi spiegazione che avesse senso per me.

Grazie a quel momento, e ai personaggi a cui mi sono appigliata nelle mie ore di insonnia e inappetenza, posso aspettare che questa crisi di tutto il mondo finisca. Stavo per scrivere “aspettare serena”. Poi mi è sembrato ingiusto nei confronti di chi questo privilegio non ce l’ha.

È con serenità, che aspetto? Non lo so. Però aspetto, pronta.

 

File:Sant'anna metterza 480.jpg - Wikimedia Commons Si stava meglio quando si stava peggio!

Scherzo, ma è curioso come mi fosse tutto più chiaro quando sapevo di dover passare la giornata tra il terrazzino (trasformato in ufficio con un pareo e due cuscini gettati a terra) e il tavolo in salotto con sopra il computer.

Adesso mi fa strano, l’ora d’aria di questa fase zero prolungata: non mi lamenterò certo del soverchio, ben venga! Così prendo anche un po’ di sole, invece di sei gocce quotidiane di vitamina D, come dovevo fare fino a pochi giorni fa. La questione è che, prima, potevo fantasticare su quale mondo avrei trovato fuori. Adesso la prima cosa che mi sono vista apparire davanti uscendo di mattina è stata una fila immensa, dall’altro lato del Portal de l’Àngel. Per un momento ho avuto l’illusione ottica che dovessero entrare tutti al Corte Inglés che torreggia all’angolo col carrer de Santa Anna: un palazzotto di colore bianco sporco, tutto trine di pietra e vecchi lampioni, alto quattro o cinque piani (non fatemi scendere a contare, che a quest’ora non posso uscire più). Un tempo era quasi tutto a vocazione abbigliamento, per così dire: l’ultimo piano, dedicato ai libri, mi sembrava una barzelletta, tanto era sfornito e male organizzato (una volta trovai nell’improvvisata sezione femminista il trattatello di un uomo bianco etero contro le “feminazi”…).

La fila, invece, girava l’angolo e s’infilava in “via Sant’Anna”, come la chiameremmo in italiano. La componevano persone vestite, appunto, come se dovessero entrare al Corte Inglés, o in un supermercato qualsiasi, e che sotto le mascherine ridevano, chiedevano chi fosse in fila avanti a loro, e provavano perfino a fare due chiacchiere, più o meno a distanza di sicurezza. Non so se quel principio d’ilarità era lì a coprire l’imbarazzo, perché, come ho avuto conferma inoltrandomi in direzione della Rambla, si trattava della fila per la parrocchia che dà nome alla strada. Alla mercé di Sant’Anna era demandato il pane quotidiano di tutta quella gente rimasta senza entrate, ansiosa di fermarsi davanti alla grata che un tempo si apriva sul cortile della chiesa, mentre adesso era presidiata da una ragazza in mascherina, che con l’aiuto di altri volontari alle sue spalle allungava pacchi con la mano guantata. Passando in fretta, i pacchi in questione mi erano sembrati buste della spesa, e mi ero ricordata di una raccolta di generi alimentari che non avevo capito dove si dovessero consegnare.

Intanto, con la didattica a distanza, amici miei insegnanti hanno guadagnato meno di ciò che pagano d’affitto, e amici ristoratori non hanno guadagnato proprio niente. La dichiarazione dei redditi, però, si è verificata con puntualità.

Non so se si è capito dal post di lunedì, ma temo tanto che, una volta finito tutto, si torni al mondo di prima.

Per fortuna leggo in voi, e nelle vostre rimostranze virtuali, le mie stesse preoccupazioni sul confine tra emergenza e deriva autoritaria, e sull’esigenza di cambiare un sistema in cui la sanità, ridotta a un colabrodo, deve fare letteralmente i salti mortali per fronteggiare incubi imprevisti.

Facciamo che stavolta ci impuntiamo, e cambiamo qualcosa.

Non credo sia giusto che ci pensi Sant’Anna.

https://www.youtube.com/watch?v=D5Y11hwjMNs

 

(Storiella ispirata alla mia prima uscita per prendere aria, sabato 2: mi è stato assicurato che non c’è il protagonista, non c’è la storia, non c’è l’evento scatenante, né il climax, né la conclusione. È stato allora che ho capito che ve la dovevo proprio raccontare.)

I mozziconi di sigaretta per strada provocano gravi danni alla ... I bidoni non puzzano più.

Mi giro apposta sul ciglio del Pelayo deserto, per controllare se sono proprio quelli che fino a due mesi fa m’investivano col tanfo d’urina mentre aspettavo il verde per i pedoni, davanti all’Imagin Café. No, sono quelli di dieci metri prima, comunque orfani di turisti ubriachi che ci pisciavano intorno, e di Estrella restituita fumante alla terra. O meglio, all’asfalto, che adesso però è sgombero di auto.

In questa prima sera di questo primo giorno da Liberi tutti – quarantena sospesa solo per un’ora al giorno, in frange orarie precise – non so neanch’io perché accelero il passo. Forse per dare l’impressione che so dove andare.

Anche quello davanti a me si muove verso la Rambla: all’improvviso si gira verso i guanti di lattice che mi fanno sudare le mani, come se temesse che volessi artigliarlo. Forse non mantengo la distanza di sicurezza? Ma abbassa subito gli occhi, e mi accorgo che, forse, cercava solo una cicca a terra, e comunque si gira spesso. Ha una tuta non proprio pulita, la barba sfatta, una mascherina forse raccattata da terra che gli penzola sotto il mento. Dal semaforo che lui non ha rispettato, lo vedo fermarsi davanti a una ragazza che legge seduta sul marciapiede, dall’altra parte della Rambla. Lo aspettava: la vedo posare il libro e contare le monete che lui le lascia scivolare in mano. Poi lo bacia, e comincia a parlare ad alta voce, in un inglese entusiasta, interrotto solo da raggi di biciclette: “Poi s’innamora di questo Vronsky, capito? All’inizio sembra che odi il marito, ma in realtà il marito…”.

“Ehi, ehi!” la interrompe lui, e corre verso una coppia di mezza età che lo ha oltrepassato senza guardare, tagliando la Rambla in direzione mia.

Non si girano: che l’uomo stia chiamando proprio loro lo sappiamo solo io e la donna che legge Anna Karenina.

“Guapa!” l’uomo che cercava le cicche ha raccattato qualcosa di giallo, si lancia all’inseguimento. “Ehi, guapa!”

La donna ha i capelli corti, non pensa nemmeno che quello possa avercela con lei, e la cosa mi fa un po’ tristezza. L’uomo delle cicche approfitta del semaforo rosso, e di loro due fermi, e solo allora mi accorgo che porta un guanto sulla sinistra: la destra che protende verso la donna è nuda.

“Non mi toccare!” la donna scatta prima ancora che lui la sfiori. Ha una giacchetta di seta cangiante, suo marito va in shorts. Frappone quelli tra sua moglie e lo sconosciuto intento ad agitare questo oggetto giallo: ma il marito, che con la donna ci ha passato un mese e mezzo chiuso in casa, non capisce di che si tratti.

Finisce che, nel breve corpo a corpo tra i due, l’oggetto sembra farsi più grande, poi si dispiega del tutto: il ventaglio sventola in aria un momento, come se chi lo sta reggendo volesse ballarci un flamenco. Invece, l’uomo che cercava le cicche lo osserva bene, poi osserva la donna che voleva aiutare, e si lascia scivolare l’oggetto di mano, con lentezza. Infine, senza più girarsi a cercare niente, torna dalla ragazza, e da Anna Karenina.

Il semaforo è diventato verde. La coppia si appresta ad attraversare, e pure io. Prima ancora di rendermene conto alzo una mano guantata e, fissando negli occhi la donna, punto un indice accusatore alle sue spalle, poi mimo lo sventolio che adotterei per ristorarmi in una giornata di caldo. Il marito mi osserva in un modo che mi ricorda all’improvviso che sono senza reggiseno. La donna, invece, capisce e si volta. Ci incrociamo sulle strisce, mentre proseguiamo in direzioni opposte. Tra due biciclette che sfrecciano, la donna agita il ventaglio e sorride, mi ringrazia in francese.

Non le rispondo. Mi dirigo verso i due seduti tra i cartoni. Il portafogli mi balla tra le mani di lattice: scelgo una moneta a due colori, senza guardarla. Guardo loro.

Mi ringrazia solo lui, ma non sorride: è come se un po’ ce l’avesse con me per avergli offerto la moneta, e con sé stesso per dover interrompere ancora la lettura della ragazza, che la intasca.

Alle loro spalle, mi accorgo, c’è la porta chiusa di uno Starbucks, con dentro ancora le immagini dei caffè alla nocciola da tardo inverno, a quasi cinque euro a tazza. Sotto al lampione decifro la scritta sul vetro, tracciata con un pennarello d’oro: “Torneremo più forti di prima!”.

Sì, tornerete, penso prima di andar via.

 

Quest’anno, vorrei augurarvi un buon primo maggio con le riflessioni di Unaelle, pubblicate su Facebook e Instagram. Salviamoci insieme, o non ci salveremo.

Terri said the man she lived with before she lived with Mel loved her so much he tried to kill her. […]

“My God, don’t be silly. That’s not love, and you know it,” Mel said. “I don’t know what you’d call it, but I sure know you wouldn’t call it love”.

“Say what you want to, but I know it was” Terri said.

Raymond Carver, What we talk about when we talk about love

In tutto questo mi sono tolta la macchinetta, e ora affondo i miei denti addomesticati in molti articoli e post sull’amore ai tempi del corona, come ormai è un cliché definire i salti mortali che fanno le coppie per conservarlo nonostante la quarantena, e le persone libere (“sole”, purtroppo, è ancora un insulto) perché “non mettano in quarantena anche la loro vita amorosa”, come martellano le pubblicità invadenti delle app d’incontri. Fatto sta che c’è chi, invece di conoscere qualcuno dall’altra parte di uno schermo, ha lanciato un’occhiatina al balcone del vicino: o magari della vicina.

Ne ho parlato con un’amica che sta approfittando dell’astinenza da “dating” – è anglosassone – per chiedersi con che tipo di uomini esca. Secondo lei, il suo prototipo è il tizio che è rimasto fermo mentalmente all’età dello sviluppo: nel pantheon maschile della comunità straniera di Barcellona, potenzialmente chiunque. I maschi del posto disponibili su Tinder (che a qualcuna ha regalato un compagno di vita, ma che io ho trovato così atroce che non ho mai contattato nessuno, né risposto in chat) storcevano un po’ il naso davanti al suo lavoro, diciamo così, poco consueto (fa la guaritrice). In ogni caso, un tizio le aveva proposto, dopo un solo appuntamento, di passare la quarantena insieme. Ora, non so se era uno di quelli che vivono a “soli” 400 euro in un ripostiglio 2×3, con finestra sul bagno del vicino. Però non mi sorprende che lei abbia deciso che a tutto c’è un limite.

Allora, le ho detto, invece dell’online dating perché non prova il mio metodo? Che poi non è niente di complicato: si tratta di conoscere gente mentre fai quello che ti piace di più.

Premessa: ci ho messo tempo ad accettare che, nella mia vita, bye bye famiglia del Mulino Bianco, unica prospettiva che m’invogliasse a barattare l’adorata solitudine con uno a cui, magari, c’era ancora bisogno di spiegare il concetto di carico mentale. Prima di gettare la spugna, m’ero messa a frequentare circoli strani in cui scoprivo che l’unico tizio che mi piacesse (bel sorriso, un libro all’attivo, una predilezione per i balli di coppia) era pronto a citarmi Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (che, scusatemi, non vi linko nemmeno) dopo aver scoperto che ero una feminazi. Ma anche arrivederci e a mai più.

A quel punto ho ricordato quello che dicevo a un amico single in tempi insospettabili: io preferirei non cercarmi qualcuno apposta, con quel proposito, visto che, in un appuntamento al buio tra etero, non sarei esattamente la categoria meno discriminata. Più che altro mi dedicherei ad attività che mi piacciono, per esempio scrivere, e conoscerei altre persone nel processo, per amicizia o chissà cos’altro.

Purtroppo, le cose che non dipendono del tutto da noi, e che lo stesso facciamo di tutto per ottenere, sono come le sabbie mobili per l’esploratore delle vignette: quello vuole arrivare al pezzo di foresta equatoriale mostrato dalla cartina, ma, una volta che gli cede letteralmente il terreno sotto i piedi, più si agita nel fango e meno raggiungerà la meta.

Metafore sceme a parte, se c’è un’app che mi ha “aiutato” a trovare qualcuno – cioè, se un’app ha fatto ‘sto guaio – si è trattato di MeetUp: sì, quella che da noi usano quasi solo i grillini. Ed è stato totalmente fortuito che si trattasse di un’app. Certo, è più facile incontrarsi in un gruppo ristretto che, per esempio, perdersi in una marmaglia di gente intervenuta a uno scambio linguistico (come questo che, ironia della sorte, pure ha un gruppo su MeetUp). Ma, come scriveva in un vecchio post l’amico formatore spirituale, facendo quello che ti piace trovi anche le persone a cui accompagnarti. E piano coi “grazie al ca’”, che magari ce ne ricordassimo sempre! Infatti, tornando alla guaritrice delusa da Tinder, le chiedevo: non è meglio partecipare alla diretta di un corso di cucina organizzato da rifugiati, oppure a un dibattito di filosofia, o anche a un’energica lezione di ballo? Così vedi come si comporta la gente in una situazione relativamente più rilassata, rispetto a un tête-à-tête virtuale in cui siete troppo impegnati a fare di tutto per piacervi, per mostrarvi così come siete di solito.

Poi, se ti va, lo contatti in privato per continuare la discussione che avete intrapreso nel dibattito, o anche per commentare un passo di danza difficile! Essere onesti è la chiave, per me, lo sapete: ma, per amiche che cercano una relazione stabile, questa discreta operazione di spionaggio mi sembra diversa dall’esporsi alle brame di sconosciuti educati a credersi “l’uomo che non deve chiedere mai”.

Intendiamoci, sono d’accordo con Rosella Postorino sulla difficoltà d’innamorarsi di qualcuno di cui non si conosca l’odore:

Incrocio le storie di quelli che si sono innamorati dai balconi in quarantena, e penso: ma se manco sanno che odore hanno. Così capisco che in me ogni residuo di romanticismo è stato prosciugato dal locquekdown.

Tuttavia, da feminazi patentata, voglio ben sperare che, come teme anche l’autrice di quest’articolo, il romanticismo sia morto, visto che di solito è lui che ammazza.

Ma di cosa parliamo, quando parliamo d’amore? Con licenza di Carver, a questa domanda sto lavorando con due studiose mica male. L’anima non tanto gemella che MeetUp ha messo sul mio cammino (e che frequentava il gruppo di scrittura di tanto in tanto, anni prima che impazzassero le app) era abituata a lunghi, lunghissimi viaggi a piedi, perlopiù spirituali, in contatto con la natura e con “persone meravigliose” che lo accompagnavano per qualche ora di cammino. Secondo lui questi compagni di viaggio, e queste compagne ovviamente, li aveva conosciuti meglio di chiunque, in quelle poche ore.

Capisco perché lo dica: anche io, nel meraviglioso ostello in cui ho scoperto la multuculturalità, avevo spesso quest’impressione, che fossero potenziali amori o fulminee amicizie. Ricordo una svedese di passaggio, o una modella americana in pensione a trentacinque anni: ustionate dalla Sicilia e stordite dallo scirocco, ci confidavamo cose che almeno le mie interlocutrici ci avrebbero pensato due volte a condividere (io ho la tragica fama di non tenermi un cece in bocca). Però, se si trattenevano più giorni del previsto, scoprivo che tutto quest’affetto istantaneo come il Nescafè non era mica così duraturo: l’incauta mossa di svegliare la svedese per un messaggio che credevo importante mi costava una giusta partaccia, e una forse meno giusta partenza senza neanche dirmi ciao. Oppure notavo – scusate, ero una pivella – che è facilissimo fare bei proclami su come stareste bene insieme, con qualcuno che sai che non rivedrai mai più.

Quel tipo di amore “che ti capisce in un istante” lo conoscevo bene. Quello che mi restava da scoprire, e forse ho scoperto tardi per certi progetti che volevo costruirci su, ha la sfortuna e il vantaggio di essere lento ma costante: “ci si mastica a poco a poco”, come dice il video qui sotto. E allora non c’è più il monaco buddista che sul camino de Santiago ti spiega che forse il tuo destino è quello di girare sempre per il mondo, o la francese che pensava di diventare suora, ma che con te, come l’avrebbe messa Sant’Agostino, ha “aspettato un attimo”: nessuno dei due ha mai dovuto interromperti la sigaretta del mattino (attentato!) per farti sommessamente notare che il wok sul fornello rientrava nei piatti da lavare, anche se nessuno te l’aveva lasciato nel lavandino. Eh, sì: l’amore da “Hai comprato la carta igienica?” (per restare sul pezzo) è scoppiettante in tutt’altro senso. Sospetto che le sue scintille scaldino meno, ma in modo più costante.

Perché, l’avrete capito: il suo segreto è la costanza. Con quello, le persone s’imparano con l’esercizio quotidiano, come i mestieri e le attività preferite. Si può creare virtualmente, quest’esercizio? Forse no, ma in mancanza d’altro è un inizio, un primo contatto: a meno che non ci vada bene un amore virtuale e, oh, tanto meglio per noi! Però, attenzione a non abbracciare la formula che insegnano nelle scuole di scrittura: l’idea per cui, per conoscere davvero qualcuno, devi vedere come si comporta in circostanze eccezionali (una lettura che trovo pessimista e che un giorno analizzerò). Forse per l’amore funziona il contrario: bisogna vedere come una persona agisce nella sua realtà di ogni giorno. E la realtà virtuale, ormai parte della nostra esistenza, mi sembra un gran metatesto in cui riscriviamo a ogni occasione la nostra biografia: lì, forse, il miglior modo di conoscere qualcuno, nelle circostanze di per sé straordinarie in cui ci tocca farlo, è prenderlo alla sprovvista, magari intento ad ascoltare in pigiama un intervento sull’ “importanza della sottomissione all’autorità, per il bene comune”.

E se in merito non ha neanche una piccola obiezione da fare, è già allarme rosso.

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Da Automatizzato comunismo memetico: seguite la pagina!

Ormai sapete come funziona.

“Esco, ti serve qualcosa?”, e faccio la lista.

La pasta mi serve sempre, ovvio, ma quale? Scrivo un nome, mostro una foto. La Garofalo nei formati lunghi è rara da trovare sotto casa, e io non amo la pasta corta, ma meglio che niente. “Quello che vuoi tu, ma che sia Garofalo”.

Il risultato lo scopro un’oretta dopo, in cucina. Appoggiato al microonde c’è un pacco che ha tutta la familiarità dei colori giusti: il rosso e nero della confezione, e il colore dorato di queste micropenne… Un momento, che formato è? Allora leggo meglio. Non è Garofalo, c’è scritto Gallo. “Maccheroni al huevo” (sic). Esasperata, apro il frigo. Ah, meno male, ha preso il latte di soia. Sì, aromatizzato alla vaniglia. Addio besciamella, maionese, pasta al forno. Ma tanto, con le micropenne della Gallo, cosa vuoi cucinare?

Tempo dopo vedo un meme che vuol essere divertente: una “lista della spesa per uomini”. Niente parole, solo fotografie del prodotto con la marca bene in vista. Beh, a casa mia s’è visto che magari neanche con quelle.

Ieri ho cominciato il discorso sul carico mentale delle donne, che è una cosa a cui in realtà non avevo mai pensato, per tre motivi: adoro vivere da sola; ho smesso di farlo da meno di tre mesi, e la casa appartiene a me; mi piace essere un po’ l’organizzatrice della situazione. Ma sì, è stressante a un certo punto essere tu quella che decide quando è indispensabile fare una lavatrice, col cielo che minaccia pioggia e un salotto dov’è complicato mettere uno stenditoio; o quella che riconosce che una parte dell’odiato compito di lavare i piatti consiste nel mettere a posto le stoviglie già asciutte, e non limitarsi a pulire solo quello che entrava nel lavandino. E non voglio neanche immaginare cosa diventi quando ci sono maggiori ristrettezze economiche, o bambini di mezzo.

Le donne della generazione di mia madre hanno sempre obiettato: “Che fa? Ti rovini la pace familiare per due scemenze che da sola spicci in quattro e quattr’otto?”. Quando non erano casalinghe, guadagnavano qualcosa come la metà del marito (e se succede il contrario, ho sperimentato sulla mia pelle, apriti cielo). Il marito non alzava un dito in casa, e le rare volte che lo faceva veniva o lodato come un bambino perché s’era riuscito a condire l’insalata, o trattato come un incapace, e tenuto lontano dai fornelli o dagli elettrodomestici (mantenendolo così, sospetto, in uno stato di necessità che compensasse almeno in parte la totale dipendenza economica di lei).

Se risaliamo addirittura alla generazione della mia prozia, recuperiamo l’eterno stupore di quest’ultima: “Mari’, ma i maschi che stanno allo studentato con te, come fanno? Cucinano le coinquiline? Ah, no? Mi stai dicendo che fanno tutto loro?”. E rideva.

Mica aveva torto. A volte, quando ho avuto ospiti italiani in solitaria, ho provato la stessa sensazione, declinata in modi diversi, di avere minori a carico. Per le donne, magari, si trattava di accompagnarle dappertutto, perché un’improvvisa libertà negli spostamenti era vissuta con sconcerto. D’altronde mi è sempre sembrato un po’ ricattatorio, il famoso: “Le strade sicure le fanno le donne che le attraversano”. E se non vogliono rischiare la pelle ad attraversarle, è colpa loro che siano insicure?

Con gli ospiti uomini, che avevano meno problemi di spostamento, devo dire che il più delle volte sono stata confortata: squisiti e invisibili, o magari visibili solo quando faceva piacere a me e a loro. Ogni tanto, però, anche con i coetanei mi sembrava di avere a che fare con un bambino incapace di qualsiasi attività domestica. Che non si rifacessero il letto erano fatti loro, magari non volevano e basta; ma cominciavo a sospettare qualcosa a tavola, quando, invece di fare le porzioni, una coinquilina si azzardava a mettere la pentola “palla al centro”, e che ognuno si servisse da sé. Allora vedevo il panico, e le strategie più strampalate: uno pretendeva di far scivolare le tagliatelle a cascata dalla pentola al piatto, invece di sollevarle con forchetta e cucchiaio!

Altri due, sono quasi sicura, non sapevano farsi il caffè: non saprò mai se fosse per il fornello a induzione, che avevano paura di usare, oppure proprio perché non avevano idea di come caricarsi la macchinetta. Altri si sorprendevano perché non facessi la spesa ogni mattina, o stendessi un bucato al giorno: sì, vivevano ancora a casa di mammà, poi per un matrimonio o un lavoro all’estero se ne sarebbero andati, ma intanto…

Per fortuna sta cambiando anche questo, ma adesso vi confesso una cosa che magari già sapete: anche io ero così, viziata dai salari bassissimi delle colf negli anni ’80 e ’90 – almeno in paese – e da una mamma che non voleva per i figli lo stesso lavoraccio in casa toccato a lei, nei ’60. Anch’io devo aver fatto i primi caffè dopo i venti, con risultati alterni, e non ero sola: ricordo un’amica che verso i trenta chiedeva su Facebook, dalla casa in cui villeggiava, “come scegliere il programma di lavaggio”. Lei adesso sarà cambiata, io non tanto: mi hanno garantito che con la quarantena perfino io avrei fatto le pulizie generali, e sto ancora aspettando che mi venga la voglia. Intanto, passo dai miei manoscritti alle letture, e faccio solo l’indispensabile, concetto di cui ho una definizione molto al disotto degli standard di chiunque: mia madre e mio fratello, quando venivano a farmi visita, si mandavano bollettini quotidiani su “cosa fossero riusciti a sistemarmi in casa” (e grazie mille ma bontà loro: erano problemi di cui neanche mi accorgevo!).

La condizione di ex impedita cronica nelle faccende domestiche e questioni pratiche, che ho superato per mera sopravvivenza e non certo per volontà, mi fa essere piuttosto empatica nei confronti dei miei compagni di specie: il che non vuol dire che siamo sullo stesso piano. “Sei piuttosto disordinata, per essere donna” mi sono sentita dire sia da parenti anziani che da un conterraneo del compagno di quarantena: uno che si vantava pure di essere moderno, “mica come gli italiani”. Avrei dovuto rispondergli: “Grazie!”.

“Sciattona” è stato uno degli insulti più bonari mai ricevuti, insieme a “intellettuuuale” (scusate il termine) da pronunciare con tre u. Certo è che, come Marta Rojals, ho scoperto solo andandomene di casa a ventidue anni – presto per un’italiana di classe media, tardissimo per le mie prime coinquiline inglesi, a volte minorenni – che non erano le fatine a farmi il letto e la colazione, che tutto quello che avevo dato per scontato era lavoro. E, soprattutto, lavoro tutt’altro che intuitivo: il caffè, i piatti, la lavatrice, sono come l’uovo di Colombo. “Facile, quando sai come si fa” dicono in inglese. Chi sostiene che non ci vuole l’arca di scienza è liberissimo, ma spero che prima di affermarlo ci abbia almeno provato. Nel mio primo incarico d’insegnamento mi accorsi di prendere cinquanta centesimi l’ora in meno della domestica a ore che mi aveva aiutato col trasloco, e vi giuro che la cosa mi sembrò avere molto senso: so insegnare l’italiano, ma sono incapace di pulire un pavimento senza lasciare strisce.

La differenza coi compagni di specie, appunto, è che nel loro caso lo stato di ignoranza, se per “ignorare” intendiamo anche “fingere che non stia succedendo”, può protrarsi vita natural durante. Cioè, per fortuna non fanno tutti così (e mi sembra anche di trattarli come dei cretini a doverlo ribadire, ma a quanto pare alcuni ne hanno bisogno): ma in linea di massima possono farlo, il che fa tutta la differenza. Su di loro gravano altre aspettative ingiuste e pesanti, ma il carico mentale non è tra queste. Un amico napoletano affermava tra il serio e il faceto che contava di passare la vita intera senza stirarsi una camicia, e si premurava di accompagnarsi a ragazze insicure e servizievoli che avverassero questa profezia.

Io il ferro da stiro non ce l’ho, lo trovo inutile se non fai certi lavori. Ho la consapevolezza che il lavoro di casa o viene svalutato, o viene relegato a donne con un potere d’acquisto minore rispetto a chi le impiega: a volte, almeno per i giornalisti di Repubblica, come soluzione politica alla disparità di genere (…).

E invece, purtroppo, s’ha da fare. Il minimo indispensabile, almeno. E la risposta alla domanda “Perché vuoi rovinare la ‘pace familiare’?” è: in realtà è una guerra, di nervi. Magari ad alcune non costa davvero niente, ma ho visto cosa faccia a tante donne mandare avanti la casa quasi da sole, come le corroda a poco a poco e le renda propense a discutere con i compagni per mille futili motivi, invece di affrontare quei due o tre che contano, tra cui il logorio costante di doversi sempre incaricare di tutto.

È un equilibrio dettato spesso da condizionamenti economici, e psicologici, che nessuno dovrebbe accettare a cuor leggero: ne va più di una pasta al forno scotta con micropenne della Gallo.

Che comunque è una bella metafora del rischio che corriamo, a far finta di niente.

 

 

 

Ok, ci risiamo.

I  bambini, chi pensa ai bambini. Adesso c’è questo dibattito sui rientri a scuola, con i genitori che premono perché avvengano e il corpo docenti che fa notare che le scuole italiane – e quelle iberiche, se è per questo – non sempre sono attrezzate per una ripresa sicura delle lezioni.

Com’è giusto che sia, si è tornato a parlare del lavoro di cura, e del perché ricada soprattutto sulle donne: non solo una questione di mentalità (o “d’istinto”, come vuole la mentalità di qualcuno), ma anche di risorse economiche, tra soffitti di cristallo e pavimenti appiccicosi.

Per fortuna, l’argomento si concentra molto sull’infanzia, su come tutelarla sul serio – la mia impressione, confesso, è che di solito l’argomento si strumentalizzi per sfruttare con salari inferiori la metà della forza lavoro: una metà a caso. Stavolta, però, a difendere la prole ci sono quelle femministe che, a volte, accusano le compagne che non sono madri di non comprenderle, di trattarle come attiviste di serie B, che si siano fatte fregare dal sistema. L’ho visto nel dibattito sull’equiparazione dei permessi di paternità e maternità, su proposta di Podemos. Lo vedrò ancora. Dall’altra parte si sottolinea come la pressione sociale per avere figli sia ancora fortissima, quindi tutti questi vantaggi sociali nel non averne non si vedono.

Tra i due fuochi (che poi per fortuna non sempre si affrontano, ma si confrontano o ci provano) mi sento un po’ in mezzo, come femminista che di figli ne voleva, ma non ha fatto in tempo a 1) raggiungere la sanità mentale per averne; 2) imparare ad accompagnarsi a gente a sua volta sana di mente, e con le idee chiare sull’argomento (impresa che forse mi riuscirà a novant’anni, cinque minuti prima di lasciare questo mondo).

Nella mia posizione ibrida, mi sento dunque di tradurre l’appello sulla pagina Facebook della sindaca di Barcellona, Ada Colau, che da madre si chiede perché la quarantena non tiene conto delle esigenze dei bambini, se ad esempio vengono ascoltate, com’è giusto che sia, quelle dei cani. Aggiungerei come già ho fatto altrove che sono tante le categorie di umani che si beneficerebbero molto di un’ora d’aria, per questioni di salute mentale. E che mi piace il fatto che, mentre dall’Italia mi arrivano video con frasi tipo “nella bara non vi vedono la messa in piega”, la cui tragica ironia posso comprendere ma non mi sembra porti lontano, mi fa piacere che chi amministra la mia città si stia chiedendo, come già in questo post, se più di lasciare tutti a casa non sarebbe stato meglio, in questa pandemia mondiale che ci ha trovati impreparati a gestirla, rendere sicure brevi uscite per la popolazione.

NB: Colau usa il termine “les criatures”, simile al napoletano ‘e criature, che io traduco come “i bambini”, ma a malincuore: so che in tanti non ne sentite il bisogno, ma io sento l’esigenza di trovare anche in italiano una soluzione inclusiva. E no, non ho niente di meglio da fare, o riesco a fare quello e quello!

“In questi giorni sono sempre più le voci che richiedono che si tenga conto delle bambine e dei bambini in questo confinamento. Però ancora non siamo abbastanza. La situazione è insostenibile e bisogna parlare chiaro e a voce alta.

Scrivo come sindaca e come madre di due bambini di 9 e 3 anni, che da un mese non escono. Da più di un mese siamo in casa con due bimbi piccoli che non sono usciti neanche un solo giorno, cosa che non capiscono: “Mamma, se io non ho il virus, non posso fare niente di male, perché non posso uscire? Io non ho nessuna colpa”.

Settimana dopo settimana, litigano tra loro ogni giorno di più, hanno attacchi di tristezza, di rabbia… è quasi impossibile mantenere un orario, né un ordine, né fare i compiti, niente di niente. Il piccolo di tre anni, che ormai stava lasciando il pannolino, è tornato indietro e non chiede più di andare in bagno. Non voglio pensare in nessun modo che sia colpa nostra. Facciamo quello che possiamo, come tutti. Li amiamo molto, che è la cosa più importante. Però questi bambini hanno bisogno di uscire.

Il fatto è che, se possono uscire a passeggiare degli adulti con un cane, e ora alcune attività economiche non essenziali si riattivano, perché i nostri bambini e le nostre bambine devono continuare ad aspettare? Sappiamo già che possono contagiare senza avere nessun sintomo: come molti adulti. Troviamo il modo di fare le cose per bene e d’accordo con i consigli degli esperti in salute. Nel corso di queste settimane tanto i bambini quanto i loro familiari hanno dimostrato che sono responsabili e che non sono idioti: hanno seguito tutte le raccomandazioni e istruzioni che sono state date. Per questo siamo sicuri che possono uscire a fare un giro vicino casa, mantenendo le stesse distanze che manteniamo noi adulti quando andiamo a fare la spesa.

Viviamo in una società eccessivamente adultocentrica che ci condanna a patimenti che possiamo evitare. I bambini non sono un incidente, né un peso da gestire. Sono persone con diritti propri dell’infanzia, raccolti in trattati internazionali, ma sistematicamente calpestati. Sento che le autorità nel campo dell’educazione sono molto preoccupate per il sistema di valutazione. D’accordo, ma a me, a molti padri e madri, quello che più preoccupa è la salute psicologica ed emotiva dei nostri bambini e delle nostre bambine. Siamo stanche [plurale femminile inclusivo, ndR] che ci dicano che siamo soldati e che questa sia una guerra, invece di parlare di come prenderci cura della vita e prenderci cura le une delle altre. Se c’è un insegnamento che mi piacerebbe ricavassimo da questa terribile crisi è che il nuovo mondo che ne venga fuori sia più femminista, che metta al centro le persone ed educhi all’amore e alla corresponsabilità, invece che all’individualismo, alla paura e alla guerra.

Non aspettate un minuto di più: liberate i nostri bambini!”.

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