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Foto di Antimo Puca

Sì, avete indovinato: anch’io sono molto più bona adesso che dieci anni fa! (“Non ci voleva molto”, commenterà la vocetta isolata di qualcuno che vuole morire presto.)

E comunque il 10-Year Challenge lo sto facendo da qualche settimana, perché, seguendo il consiglio scherzoso di un signore che adesso ha pubblicato un libro, sto scrivendo un romanzo ispirato ai miei primi tempi a Barcellona: dieci anni fa, appunto. Ma il consiglio era di dieci anni fa, quindi sono piuttosto in ritardo.

Embe’, a voi non capita mai di dover rimuginare un po’ sulle cose, prima di trarre conclusioni? Diciamo che me la sono presa comoda.

Mi ci è voluto letteralmente un decennio per capire, grazie anche a una signora che di libri ne ha scritti tanti, una cosa importantissima: non siamo noi il punto. È vero, non dobbiamo mai sparire dal quadro e inserire il pilota automatico, o vivere per interposta persona.

Ma, se ci concentriamo su noi stessi, ci perdiamo la vita. Se scriviamo solo di noi, ci perdiamo il romanzo.

Finiamo per scrivere qualcosa di diverso, in cui i personaggi sono incatenati ai “fatti”, dimentichi che oltre alla strada che abbiamo imboccato noi ce n’erano mille altre che abbiamo scartato, e che sarebbe divertente esplorare con loro.

Dieci anni fa avevo imboccato diversi vicoli ciechi, ma ho imparato un sacco di cose, nel modo meno pratico possibile. A un’olandese appena arrivata a Barcellona finii per raccomandare: “Fai tutti gli errori che puoi il primo mese”. Mi ha pure citata nel libro che ha scritto anche lei! (Ma l’ha pubblicato nella sua lingua, quindi non lo trovo…)

E io, di errori, quanti ne ho fatti: ho sbagliato casa, coinquilini, metodo di studio, e mi sono giocata ogni possibilità, ammesso che ce ne fossero, di coronare il sogno d’ammmore romantico dei vent’anni, da realizzare a patto di tornare “a casa” a un certo punto. Sono tornata? No. Anche questo è stato un errore? Boh.

Ma, se sto qua da dieci anni, qualcosa ci avrò pur trovato.

È vero, molti di noi fanno la vita che fanno anche per paura, per inerzia, o per una serie di decisioni prese in un momento diverso da quello che vivono ora, le cui conseguenze, però, stanno ancora scontando.

Non ho ricette, solo la consapevolezza che c’è quasi sempre qualcosa che possiamo cambiare, e un tentativo va fatto, se no è uno spreco.

Forse è questa la vera sfida dei dieci anni: non sprecarci.

https://www.youtube.com/watch?v=IA1kFkEOEqo

 

 

 

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Una scena della presentazione (foto di Claudia Crescenzo)

Stamattina mi sono svegliata alle 6 e mi sono messa a leggere Guerra e pace, per giunta in formato elettronico. A mia discolpa posso dire che ho un po’ di labirintite, e che ho rimandato la lettura a quest’età perché a vent’anni mi ripromettevo ancora di farlo, un giorno, in lingua originale. Poi il mio russo si è fermato a frasi come “Io amo la mia nonnina”, e soprattutto: “Quanto costa un chilo di mele?”, che mi dicono essere molto utile a Mosca, dove le mele sarebbero ottime.

Sono arrivata a metà lettura, quando l’esercito francese avanza proprio verso Mosca, e una dama di questa città si sforza di non parlare la lingua del nemico, pena una multa a favore delle truppe russe. A un certo punto, però, la pettegola non si trattiene e, riferendosi a due conoscenti, insinua nella lingua di Napoleone: “Lei si è pure un po’ innamorata di lui…”. “Multa! Multa Multa!” protestano dal suo seguito. E la signora, indispettita: “Ma come si fa a dire questo in russo?”.

È paradossale che abbia letto tutto ciò dopo la presentazione del libro di ieri sera (qui le foto, grazie ancora a tutti i presenti!): in quella sede avevo giusto spiegato che mi ero “impadronita” del napoletano alla veneranda età di sedici anni (comunque troppi per parlarlo come il mio eroe Nino D’Angelo). Le lingue, dicevo, compiono percorsi tortuosi nel loro intreccio con le nostre vite, e io, rispetto al napoletano, devo essere qualcosa come una “madrelingua passiva”. Va da sé che l’italiano è molto più “mio” del francese parlato dalle dame moscovite d’inizio Ottocento: ma mi piaceva recuperare quest’altra lingua, quella casalinga dei nonni (una maestra e un dirigente statale, fieri del loro italiano), e quella che i genitori mescolavano senza problemi nelle loro comunicazioni quotidiane.

Un po’ come il catalano: forse è vero, a Barcellona, secondo gli standard dei puristi, lo parliamo male (e dopo dieci anni mi butto nel calderone anch’io). Magari lo “sporchiamo” di spagnolo e inglese più che nel resto della Catalogna, ma, delle serie girate tutte in catalano, un amico argentino sosteneva: “I dialoghi suonano falsi, perché un po’ di spagnolo ogni tanto scappa”. Così come, nello spagnolo che ascolto a Barcellona, la parola “ahora” (ora), diventa quasi sempre “ara” (l’equivalente in catalano). Vero: ci sono espressioni intraducibili nell’una e nell’altra lingua, anche se le serie più popolari contaminano un po’ troppo la lingua a beneficio del pubblico (salvo mettere in una famiglia barcellonese doc una bimba con accento di Girona, che è come mettere una salernitana a Napoli, o una napoletana a Salerno). Però, amici del posto che studiano un italiano scolastico con prof. non madrelingua, avanti a un caffè usano ancora termini come “certuni”, “codesto”, o “Vai forte!”, che magari, a seconda della regione d’origine, ci sembrerebbero un po’ artificiali.

Adesso i figli dei miei vicini mi svegliano d’estate coi loro accenti del Nord, e le espressioni tipo: “Eh, ma non ci sono le robe!”, al che mi ricordo di quando le loro mamme e zie si rimproveravano nel dialetto paesano gli errori fatti giocando a molla.

Insomma, le lingue compiono giri affascinanti, e capisco ogni tentativo di difenderle dagli “eserciti invasori”: tic linguistici, espressioni alla moda, e gli errori che facciamo noi all’estero, che finiamo per parlare male tutte le lingue sul curriculum.

Ma niente, quando devo esprimere il fastidio supremo di interagire con determinati individui mi lascio scappare il sempiterno: “Non voglio mettermi a competere con quello là”. Al che i non napoletani in ascolto mi rimproverano per l’ambiguità semantica. E allora mi viene da parafrasare quella dama russa impicciona che, con Napoleone alle porte, si ostinava a parlare francese: “E questo come si esprime, in qualsiasi altra lingua del mondo?”.

https://www.youtube.com/watch?v=k0o9HnNgeXY

i-talk-alot-but-say-very-little-meme-41068In realtà non me lo dicono più, che parlo troppo. Non so se si sono rassegnati o se sono migliorata io, ammesso che parlare meno significhi migliorare. Per me il limite è quando le parole eccedono il contenuto, cioè quando hai già detto quello che dovevi, e vuoi solo continuare a sentire la tua voce.

Sapete quando me lo dicono ancora, che parlo troppo? Allo scambio linguistico a cui collaboro ogni tanto. Ci sta, perché lì devo spronare in spagnolo gente che non si conosce, a dire cose in una lingua che non padroneggia. Ma le due volte che, ultimamente, hanno scherzato su “quanto io chiacchieri”, è stato lì.

Questo mi ha fatto pensare: è logico, lo spagnolo non l’ho mai studiato. Me lo invento da dieci anni, con buoni risultati, mi dicono; ma in fondo, se parlo molto, è perché non so bene come dire quello che voglio. Allora faccio i proverbiali giri di parole.

Vi scrivo tutto questo perché a volte non è neanche incapacità di esprimersi, ma mancanza di volontà: usiamo mille frasi perché non abbiamo il coraggio di dire “non voglio”, “mi dispiace”, “ho cambiato idea”, “non ti amo”.

È vero, “il coraggio uno non se lo può dare”, diceva uno che nascondeva le sue paure dietro al latinorum.

Ma darsi coraggio è il miglior modo di risparmiare il fiato.

E, alla lunga, pure la salute.

a36b369f1a05f3a434cdd8d784e1c075Quando in tasca ho più biglietti da visita di agenti immobiliari che biglietti della metro, lo sto rifacendo: cerco la svolta. Tipo una casa da  abitare e affittare per metà, in una città che costruisce le case o per viverci o per farci i soldi. Di solito finisco per rinunciare e prendermi un gelato, in attesa di tempi migliori.

Ma intanto imparo molte cose sulla specie animale a cui appartengo.

Stavolta ho scoperto una cosa che già mi aveva segnalato Dostoevskij: anche un bigliettaio del treno si dà importanza per quel minimo di potere che ha. Se consideriamo che genere di biglietti ho in tasca in questi giorni, capirete chi altro abbia questo vizio.

E mi dispiace, perché so che tanti agenti immobiliari sono pagati uno schifo, e fomentati tipo i teleoperatori di Tutta la vita davanti. Mi fa tenerezza la bellissima tedesco-russa-rumena che mi fa le imboscate WhatsApp alle dieci di sera per vendermi un appartamento caro e impersonale, creato per farci i soldi e non per viverci. Mi verrebbe da “risolverle la vita”, come a volte mi viene in testa di fare, senza mai riuscirci ovviamente (però spesso procuro contatti e indirizzi utili).

Quello che non posso più ascrivere a coincidenza, invece, è il senso d’importanza che si danno quelli che operano in zone esclusive (Avinguda Diagonal, carrer Enric Granados…), dove, mi sono accorta ben presto, i soldi per svoltare non ce li ho. Può succedere che in un caso o due confonda la ragionevolezza con l’arroganza, se un agente respinge un’offerta con la frase “È pur sempre la Diagonal!” (purtroppo non so tradurgli il napoletano “e tiritittittì“). Ma m’incuriosisce il fatto che, per un appartamento accanto a Plaça Catalunya (cioè, caro e centralissimo), nell’arco di 24 ore abbia un architetto a illustrarmi gratis eventuali migliorie, e per un piano terra accanto alla Diagonal (con giardinetto, ma sempre un vascio) la responsabile che accompagna l’agente dichiari che chiamerebbero l’architetto “solo se fossi realmente interessata, perché è un pomeriggio di lavoro!”. Che il rispetto per il lavoro altrui sorga solo in simili situazioni? D’altronde, nel caso specifico, il… soldato semplice, al momento di salutarmi, mi ha trattenuto la mano e mi ha rivelato con curiosa confidenzialità che “i proprietari avevano rifiutato un’offerta più bassa”: insomma, mi era sembrato di tradurre, facessi pochi scherzi e pagassi subito, o lasciassi la casa a chi capisse il russo! Alcuni annunci in zona, infatti, sono unicamente in questa lingua. La domanda è: chi capisce il russo si compra forse un vascio, fosse anche sulla Diagonal?

Ovviamente non si parla di lotta tra poveri, ma ripenso a quel bigliettaio che si credeva chissà chi perché in quel momento, e solo allora, aveva qualcosa che gli altri volevano.

E di cui lui, badate bene, era solo custode e non padrone.

Vabbe’, almeno ha riaperto la mia gelateria preferita.

145607806-fccd61c1-5e19-4009-b9b1-a8f77667fe9dCerti commenti di veterani a Barcellona, di quelli che hanno studiato alla “scuola della strada“, mi fanno ripensare al Fertility Day: a quei tempi, in una delle tante baruffe su Facebook, un utente anziano intonava un inaspettato inno stevejobsiano all’intraprendenza personale, chiedendomi “perché non me la creo io, la possibilità di avere figli”. Che per lui chiudeva tutto l’argomento. Smettete di lamentarvi, giovani perdigiorno, rimboccatevi le maniche (il più inflazionato dei cliché) e createvi le possibilità che volete.

Per me questo signore aveva ragione, ma perdeva completamente di vista il problema. Come lo perdono gli italiani che come me, a suo tempo, hanno fatto il Nie in una sola giornata, o addirittura ricordano i tempi in cui al consolato non c’erano file per l’AIRE. Nonostante questo, “insegnano a campare” a chi, magari con scarso spirito d’iniziativa, non riesce a procurarsi queste cose oggi.

Ebbene, non deve fregare né a loro né alle istituzioni cosa facciamo noi per “arrangiarci”, per ottenere quello che dovrebbe essere un diritto ed è diventato un’impresa. Gli deve fregare cosa fanno loro, per aiutarci, specie le istituzioni, che non sono chiamate a dare consigli prescindibili, ma a “fare il proprio dovere”. 

Condivido qualsiasi inno all’iniziativa personale, basta che non sposti l’attenzione dai diritti negatici alla nostra abilità nel procurarceli comunque. Il primo resta un problema di assoluta priorità.

Ma no, per i criticoni educatisi alla “scuola della strada” dobbiamo perdere ogni pretesa di essere aiutati da chi (il consolato, il commissariato…) sarebbe lì proprio per quello. E questa “lezione di vita” è l’unica perla di saggezza che, a loro volta, ci elargiscono.

Quello che non possiamo accettare è che l’unica soluzione diventi dare per scontato che l’unico aiuto che riceveremo mai venga da noi stessi.

I diritti ce li abbiamo anche se, purtroppo, abbiamo imparato a farne senza.

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Elaborazione grafica di Andrea Visentin

Ieri abbiamo dato la seconda rappresentazione di uno spettacolo scritto da me e altri tre attori. Parlava degli italiani a Barcellona, e le scene scritte da me cercavano d’illustrare il surrealismo di operazioni apparentemente semplici come ottenere un documento per lavorare, o affittare una stanza con la possibilità di dichiararla come domicilio.

Lo spettacolo è andato bene, c’era molta gente.

All’uscita, però, mi sono accorta che la vita reale mi aveva battuta, come sempre, dieci a zero: tra gli spettatori c’erano un ottimo grafico, un’autrice di letteratura infantile, una fotografa e altra gente che si è occupata, a livello più o meno professionale, di attività creative.

A un certo punto, l’autrice ha guardato gli altri e ha detto:

“Ehi, ma eravamo nello stesso call center!”.

Ironia della sorte, era il dipartimento che si occupava di riscossione debiti di una grande banca americana.

“Ma certo!” le hanno fatto eco altri due. “Tu lavoravi con il Porcu, la Visentin…”.

Insomma, a giudicare dai cognomi, mezza Italia era venuta qui a Barcellona per telefonare a gente indebitata con una banca e convincerla a sganciare i soldi.

Il dibattito è antico, sulla pagina che modero: che partite a fare, se finite in un centralino?

Beh, anche le risposte sono antiche (“In Italia nemmeno quello”, “Poi si trova di meglio”, “Vuoi mettere con Barcellona?”) e si riassumono in tre parole: sto meglio qua.

E poi di quello stesso dipartimento conoscevo mezzo reparto olandese, senza contare i vari scandinavi: magari quelli si sono fermati solo qualche anno, o dopo un po’ si sono goduti il sole da scrivanie più redditizie. Diciamo che l’inglese aiuta più dell’itañol.

Però è singolare che si parta convinti di fare chissà cosa, e si finisca a fare “i camerieri d’Europa” (con un terzo dell’accortezza di un cameriere professionista). E dopo dieci anni, in qualche caso, ci si ritrovi comunque in un call center.

Provo sempre a scrivere qualcosa sui tanti Young Adults immersi, a volte intrappolati, nella stessa vita che facevano all’arrivo. Ma non gli rendo mai giustizia.

La domanda delle domande resta sempre: ne vale la pena?

E se sono contenti, claro que sí.

 

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Il mio pranzo di Pasquetta, da vitadonna.it

Io poi me lo scordo, che vivo in un universo parallelo.

Quello in cui, mentre la mamma di Casa Surace perpetua il cliché delle terrone schiave-dei-fornelli, io esco all’una della domenica di Pasqua, con i fornelli spenti e una tuta così inguardabile, ma così inguardabile, che tre giovinastri in tenuta hip-hop e stereo cominciano a farmi pssst pssst.

Una volta a casa, metto su la zuppona vegetale che sconvolge tanti mangiatori italiani di agnello al forno (pietanza che ho sempre schifato anche quando divoravo costatelle). Peraltro mi rimane un dubbio: il castiga-vegani medio si esprime a grugniti per omaggiare il suo piatto preferito, o per coinvolgere nel linciaggio anche l’odiato Dante Alighieri? Miii, è il caso di dire “due piccioni con una fava”!

A fine pasto, arrivo a chiedermi se non esagero a mangiare ben due quadrati di cioccolato fondente (non per la dieta, per il mal di pancia): poi vi immagino combattuti tra la terza fetta di casatiello e la quarta di pastiera e mi dico vabbe’, sopravviverò anch’io.

Anche oggi che è Pasquetta, continua per me l’Operazione Sepolcro: quello lì è risorto, io ancora no. Ho pure finito quasi tutte le provviste, e non voglio entrare in un esercizio commerciale a Pasqua, che in Catalogna si festeggia oggi: in forno ho il pane appena fatto (no, non è lievito madre, sticazzi anche quello), e per il companatico andrò di lenticchie pardinas e Instant Pot.

Perché se non si è credenti dovrebbe essere normale, secondo me, scegliere liberamente se seguire il calendario e abbuffarsi coi parenti, o prendersi la pausa che vogliamo, quando la vogliamo. Non lo dice anche il proverbio? Natale con i tuoi… Tanto a Barcellona due giorni di ferie, ci danno: il venerdì santo e il lunedì di Pasqua. Certi ponti sono più lunghi!

Purtroppo non toccherò mai i livelli della vicina nordica, che se ne sta in bikini a prendere il sole con una temperatura che varia dagli 11 gradi ai 15. Qui siamo assuefatti anche a questo, e non mi dispiace: i miei amici italiani in visita hanno un bel rifarsi gli occhi, davanti all’ondata improvvisa di giovani seminude di tutto il mondo, ma dopo un po’ capisci che il nudo è una cosa “wow wow wow” solo per chi è stato sempre abituato a reprimersi. Come quei coetanei “gentiluomini” di mio padre che si sentono gran signori a “guardare altrove”, senza rendersi conto che stanno trasformando un corpo in un problema.

È stato dunque con rammarico che ho dovuto contraddire il grande Tony Tammaro, in quella zona libera da amargados che è stata il suo concerto a Barcellona (vista l’assenza di chi lo disprezzava senza conoscerlo).

Quando il Maestro ha attaccato il consueto rock tamarro di Pasquetta, ci ha fatto la domanda di rito:

“Si nun tenimme ‘o custume, comme ce facimme ‘o bagno?”.

Al che ho dovuto gridare:

“Senza niente ‘n cuollo!”.

Ma, oggi e solo oggi, “C’ ‘a mutanda!”, Tony.

Perché oggi ricorre l’unica data del calendario che rispetto ciecamente: il momento di acchiappare a Peppe.

https://www.youtube.com/watch?v=vywgpkymMo4

 

 

Risultati immagini per barcelona 25 marzo 2018

Da ElDiario.mx

Ieri sera l’indepe di casa mi ha raccontato che un autobus si era messo di traverso tra Passeig de Gràcia e Diagonal, per aiutare i manifestanti che protestavano per la cattura di Puigdemont.

Io avevo in corpo la birra vinta al pub quiz, dolce ripiego per quella domenica in solitaria, e lui tornava incolume dalla manifestazione.

“Un atto d’insurrezione dell’autista, spontaneo” ha commentato poi, dandomi la buonanotte.

Prima di chiudere gli occhi, però, mi ha chiesto:

“Ma se vengono ad arrestare anche me, tu davvero gli dici ‘Portatevillo’?”.

“Ovvio”.

Non l’ho manco chiamato subito, ieri pomeriggio, per vedere se fosse tutto intero. Ci è voluto il solito WhatsApp di mia madre: ci sono disturbi a Barcellona, voi tutto bene, vero? Sì: ormai so che almeno è una personcina prudente.

E poi funziona così da ottobre: io che non sono indipendentista impreco e mi dedico alle mie cose, lui va a queste manifestazioni che finiscono su Repubblica con la parola “Scontri” nel titolo.

Ho un amico genovese, sindacalista, che fa questo da trent’anni: ha moglie e figli catalani “indepe”, e ci litiga bonariamente ogni giorno.

I miei amici sotto i quaranta sono meno sportivi, specie quelli che stanno proprio con catalani indipendentisti, eventualità che io ho sempre troncato sul nascere.

L’agguato me l’ha fatto il tempo: tanti italiani di sinistra arrivano a Barcellona convinti che gli indipendentisti siano la Lega. Poi si accorgono che l’indipendenza la vogliono tutti i nuovi compagni dei movimenti, e anche le persone che si porterebbero a letto. Tempo qualche mese, hanno cambiato idea anche loro. L’indepe di casa non ha fatto eccezione, convinto che rispetto a questa Spagna sarebbe meglio anche la Repubblica di Mordor. Su questo, mi sa, non ha tutti i torti.

A me restano gli aneddoti, come quello dell’autista che ha messo l’autobus di traverso per bloccare la polizia. O del poliziotto arrestato perché manifestava.

Fatto sta che, ogni volta che spengo il lume sul comodino, mi chiedo cos’altro succederà domani.

E so che io me la cavo sicuro, ma gli altri boh.

 

Risultati immagini per insomnia Ma solo a me vengono le crisi esistenziali, quando mi sveglio nel cuore della notte?

Lasciamo perdere quella volta a Firenze, che aprendo gli occhi avevo visto il Duomo dalla finestra aperta, e mi ero alzata gridando: “I Medici! L’Inquisizione! Fuggiamo!”.

Ve l’ho raccontata, vero? Mio fratello mi sfotte ancora.

In realtà mi capita più spesso di svegliarmi e chiedermi cosa sto facendo della mia vita, una simpatica abitudine iniziata la prima volta che sono andata “fuori dai binari”: non ancora ventenne, avevo rinunciato alla relazione “dal basso” (iniziata, cioè, più o meno in tenera età) che mi avrebbe regalato una placida, immutabile esistenza al paesello.

Da allora mi sono ritrovata alle due di notte in un bagno barcellonese infestato dagli scarafaggi, o mi sono versata bicchieri d’acqua in cucine condivise con studentesse cinesi, e ancora appannate dal vapore della cena. La domanda era, è, sarà sempre: “Che sto facendo della mia vita?”.

Non c’è modo che riesca a rispondermi, nei fumi del sonno: “Esattamente quello che devo fare“. Perché ok, ci saranno cose più affini a me di altre, ma non c’è un solo cammino: ora so che anche rimanere al paesello sarebbe andato bene, a prenderla meglio. Ciò non toglie che preferisca un ambiente internazionale che ai miei tempi il mitico Jimmy il marocchino non riusciva a darmi da solo, nonostante vendesse spillette di Freddie Mercury.

Sapete però qual è la risposta che più si avvicina a lasciarmi in pace? “Sto facendo quello che voglio fare“. Nel mio caso, è scrivere. Troppo spesso ho rinunciato: sapete come funziona, vi prendete un piccolo impegno e diventa enorme, o le ore di lavoro raddoppiano come per magia, senza che lo faccia lo stipendio.

Quindi, se anche voi vi svegliate con la domanda “Che minchia sto facendo?”, provate a chiedervi: “Cosa potrei fare in alternativa?“. E visto che, come si diceva, non c’è una risposta unica, cominciamo ad ascoltarci prima di fare scelte sbagliate, e ritrovarci:

  1. con tre figli, quando in realtà non li volevamo;
  2. senza figli, quando avremmo voluto e potuto averne;
  3. in paese, quando avremmo preferito vivere dall’altra parte del mondo;
  4. dall’altra parte del mondo, quando ci bastava restare in paese, ma con più pazienza, calma e gesso.

Adesso non posso più dirlo alla me stessa di quasi venti anni fa: mi limito a rispettarne le scelte, di cui in qualche caso pago le conseguenze. Quello che posso fare quando mi sveglio di notte, prima di darci sotto di melatonina (e leggere un po’) è assicurarmi che il giorno dopo farò almeno una cosa che mi piaccia.

O ci proverò.

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Castelleres femministe, foto di Alberto Ruggiero

Vabbe’, almeno questo si sapeva in anticipo, no? Si è passati dal cercare la scheda elettorale a cercare il passaporto, come scriveva qualcuno.

Ma la mia frase preferita è stata quella di Lorenzo, su Facebook:

Quindi il prossimo parlamento sarà diviso tra chi sparerebbe agli immigrati in Italia, chi gli sparerebbe mentre sono in mare, e chi invece li vuole rinchiudere nei lager fuori dall’Italia. Apposto così.

Ho spento la Maratona Mentana in streaming su un fascista che si lamentava perché non aveva avuto risonanza mediatica, intanto che gli Hipster Democratici sfottevano Viola Carofalo perché non reggeva il vino quanto loro l’ape (la cosa inquietante era che, da presunta ubriaca, era molto più sensata dei commenti “sobri”).

Qualche ora prima, una “talpa” mi informava che uno dei miei colloqui di lavoro per tornare un po’ in Italia era destinato a priori al fallimento, perché già avevano una nomination vincente (per riagganciarmi alla notte degli Oscar: a proposito, figo, il #nomakeupmovement!).

Che vi devo dire: io a votare ci ho provato, è stato un pastrocchio da esportazione degno dell’epilogo toccato alle schede una volta in Italia.

Non mi resta che tornare all’8 marzo a Barcellona: grande! Come vedete dalla foto, qua in Catalogna ci si è anticipati già da domenica, con castells femministi come questo alla Festa di Sant Medir. Si prevede anche un discreto successo dello sciopero generale, quelle che non aderiscono non sempre sentono il bisogno di manifestare un’excusatio non petita rompendo le ovaie a quelle che lo fanno (a parte le solite note).

Tra l’altro, qui, le feste si celebrano come piace a noi, con virgole e distinguo che pure io fatico a seguire: quest’anno accusano di transfobia il classico triangolo fatto con le dita (che l’anno scorso mi aveva divertito, al massimo lo avevo visto in gloriosi documentari in bianco e nero), e la stessa festa di Sant Medir è stata criticata per il maltrattamento dei cavalli, per cui mi associo: più castelleres e meno cavalls!

Insomma vi prego, per l’ennesima volta: facciamo ponti. Anche perché noi che viviamo all’estero abbiamo due o tre cose da dire sulla tiritera “Manchi da troppo in Italia, non capisci che problema sono diventati gli immigrati”.

Innanzitutto, noi in Italia ci torniamo, mentre interlocutori di questo tipo non vengono da noi, non più di un fine settimana. Poi viviamo proprio in posti in cui l’immigrazione è più alta che in Italia, e noi ne siamo parte (basta con immigrati vs expat!): sappiamo quindi che ce la si può fare, nei quartieri multietnici in cui viviamo, dove capisci che è una questione di povertà e non di origine geografica.

Anche Super Mentana chiedeva alle comunità musulmane di “schierarsi contro il terrorismo“: prossimamente su questi schermi, anche le comunità italiane chiederanno scusa per la mafia (no, era uno scherzo: non vedo perché dovremmo se non siamo affiliati, discorso diverso per colpe storiche che il nostro paese non riconosce).

Quindi smettiamola di partire da un problema concreto (i nuovi flussi migratori) per arrivare a conclusioni assurde (ci vogliono massacrare tutti) con epiloghi tragici (massacriamoli prima noi).

E buon 8 marzo, che ne abbiamo bisogno.

 

 

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