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Ieri ho chiacchierato su Instagram con Gabriela Cistino, alias @Unaelle, di qualcosa che mi chiedo da ormai tredici anni: perché?

Perché lo Stato spagnolo sembra decisamente più avanti dell’Italia, quanto a politiche di genere? Gli stessi dibattiti all’ultimo sangue sulla legge trans, o sui permessi equiparati di paternità e maternità, dimostrano che, qui dove vivo, vengono proposte soluzioni a problemi che spesso, in Italia, neanche si cominciano a individuare. Come argomenta Unaelle, la mia terra d’adozione non è l’Olanda, e molti problemi restano terribili e urgenti: mi viene da pensare alle amiche madri che si lamentano della scarsità di asili e scuole pubbliche, in un paese che privatizza molto su sanità e istruzione. Oppure ricordo la consigliera barcellonese che andò a denunciare un episodio di molestia, e si vide chiedere se, oltre che palpata, fosse stata anche derubata: quel particolare avrebbe velocizzato l’intera procedura. Nonostante tutti i limiti, certe questioni che ormai do per scontate non lo sono in Italia.

A riprova che, come sospetta Unaelle, l’educazione gioca un ruolo fondamentale nella differenza, l’aspetto più divertente è che nella comunità italiana si ripropongono le stesse dinamiche della madrepatria. Come se un anno, due, trent’anni trascorsi qui non servissero a scrollarsi di dosso l’odore di chiesa, e l’idea che la famiglia sia una degna sostituta del welfare. Qui dove vivo, che so, vado alla riunione “politica” di un movimento italiano spazzato via dalla pandemia (posso scrivere “per fortuna”?), e un tizio mi fa impunemente mansplaining (per gli autarchici: minchiarimento). Allora, una conoscente che ha assistito alla scena mi fa poi osservare che il minchiaritore “avrebbe fatto così anche con un uomo”: stes-sa co-sa, proprio, e stesse dinamiche di potere. A riunione finita, l’organizzatore dell’incontro si vede offrire da un altro italiano, stavolta un attivista nei movimenti locali, i protocolli antisessisti che si usano in Catalogna, ma cade dal pero. Proprio non capisce di cosa stia parlando quel punkabbestia lì: l’intera faccenda non andava forse derubricata come un mio momento d’isteria?

Mi lamento di tutto questo con dei vecchi compagni di associazione, e uno di loro mi dichiara di aver subito womansplaining (sic). Allora mi chiedo: ma io, perché dovrei frequentare ‘sta gente?

Il tempo è prezioso per chiunque, non vedo perché sprecare il mio a discutere con persone che non vogliono vedere, mentre tante realtà autoctone sono sensibili ai diritti, e vanno come treni

Gabriela, invece, non si arrende. Crede che il femminismo possa attecchire nell’intera società, anche nella terra stivaliforme che ha generato tutto il disagio di cui sopra. In ogno caso, secondo lei bisogna provarci. E allora ci proviamo. Perché ammiro la dedizione della compañera, o companya. E poi perché, da questa crisi qui, ho deciso di condividere sempre le cose belle che imparo.

Il risultato, potete seguirlo qui sotto.

Salut advierte de que la Semana Santa es un "interrogante" y no descarta  una cuarta ola
Da: https://www.elperiodico.com/es/sanidad/20210314/catalunya-coronavirus-semana-santa-cuarta-oleada-11578331

Doveva andare così.

Saranno state le feste pasquali, poi le restrizioni di mobilità che ci hanno relegato alla nostra comarca di residenza. Senz’altro avranno contribuito i rari giorni di sole che regala l’aprile barcellonese, che per una misteriosa legge della natura è così freddo e piovoso, da far letteralmente schifo agli inglesi. Fatto sta che già non bastano le mie passeggiate in solitaria, per farmi smaltire le tonnellate di comfort food che precedono la consegna di un manoscritto, ma poi ci si mettono pure coloro che, con un’improbabile fusione tra le mie lingue preferite, chiamo: The “Coccosa?”! Da leggere con l’enfasi che adotterebbe Pippo Baudo nel presentare i Doors (scusate l’immagine).

L’articolo inglese non richiede troppe spiegazioni: i soggetti di questa specie sembrano una banda musicale dai componenti che non finiscono più, manco fossero i Chumbawamba o l’Orchestra italiana.

Invece, “Coccosa?” significa letteralmente “Qualcosa?”, e viene usato in napoletano per chiedere (*sguardo alla De Niro tassista*): “Hai qualche problema?”. Di solito si rivolge a una persona che sta esprimendo giudizi negativi nei nostri confronti, fosse anche con lo sguardo, oppure sta commettendo un reato gravissimo: addirittura, pretendere un po’ di rispetto!

Ecco, io quando le strade del centro di Barcellona si affollano con la primavera (specie se a percorrerle non sono turisti, come in questi frangenti), dopo tredici anni accuso ancora lo shock culturale di trovarmi in mezzo a una masnada di scustumati, come direbbe Gianfranco Marziano, che contravvengono a una delle leggi sacre della classe media partenopea: non abbuffare la ualler… ehm, non disturbare il prossimo. Quando ti insegnano fin dall’infanzia che tu e la tua famiglia siete l’ultimo baluardo di civiltà, e che la vostra casa è un fortino inerme, circondato dalla fauna selvaggia (designata anche con termini per niente razzisti, tipo zulù o mao mao), diventa un segno di distinzione sociale scostarsi dal centro della strada se si va lenti, e fare estrema attenzione a non urtare altri passanti (anche perché le nostre mamme hanno sempre questa paranoia che parta una coltellata a caso, così de botto e senza senso). Neanche vi descrivo la frenesia nel fare presto e bene alla cassa del supermercato, con l’aiuto di una dipendente che si trasforma in Super Saiyan per non perdere il posto (ma questo è un capitolo sciagurato a parte). Per farla breve, quella che dovrebbe essere semplice educazione può diventare uno status symbol: la prova che fai parte dell’esclusiva (e privilegiatissima) schiatta della gente perbene.

Qui dove vivo, invece, non si fanno tutti ‘sti problemi. E non penso neanche alle famiglie che per passeggiare occupano un’intera stradina del Gotico: genitori al centro con la carrozzina o con l’ultimo nato a tracolla, e intorno due marmocchi sul metro e dieci che ciondolano in attesa di avvistare una gelateria troppo cara. In casi del genere, la faccia mia sotto i loro piedi! Io non so gestire l’irrigazione di un cactus, figurarsi una domenica pomeriggio con tre bambini al seguito… Un applauso anche alla coppia che si sarà sposata quando Franco aveva vent’anni e mezzo, e ancora resiste mano nella mano, con bastoni da passeggio e mascherine sollevate quasi fino agli occhi.

No, mi riferisco piuttosto a donne, uomini, comitive di persone giovani o al massimo di mezza età, senza problemi di deambulazione e/o con un solo figlio al seguito, che semplicemente devono:

1) occupare l’intero manto stradale, magari sparpagliandosi come soldati in missione per coprire tutto il territorio. Per questi corpi speciali, qualsiasi bambino richiamato nell’atto di sodomizzarti con una spada giocattolo rimarrà traumatizzato a vita, e anche di venerdì sera, al Portal de l’Àngel, le coppie di mezza età devono tenDersi obbligatoriamente la mano (cioè, se la tengono, ma estendendo tutto il braccio come se ballassero il sirtaki): separarle comporterebbe il divorzio immediato, quindi mettiamoci noi la mano sul cuore;

2) procedere con la velocità di Dumbo appiedato sotto acidi: dopotutto, oh, stanno passeggiando, che gliene frega se tu vai di fretta perché hai lasciato le patate sul fuoco?

3) fermarsi di botto in qualsiasi occasione non lo permetta, e non schiodarsi finché non hanno deciso dove andare a prendere una birra sfiatata o delle bravas ultrafritte (scusate, vivo sempre nel Gotico): per l’alto rischio di incorrere in queste evenienze, si consiglia di portarsi dietro un opportuno sgabello pieghevole, o un machete.

E cosa dire della fila alle casse del supermercato? Ho sviluppato una selettività al limite del razzismo, tipo George Clooney con i controlli aeroportuali: davanti a una cassa ci sono cinque persone di diversa nazionalità, e in un’altra già svuota il carrello una sola persona anziana, autoctona? Mi metto in fila! Cielo, ho avuto l’apparente fortuna di sgamare uno dei pochi supermercati del Gotico che abbia una clientela “di quartiere”, invece di essere orientato ai turisti: ebbene, ci sono andata massimo quattro volte. La prima c’era una signora elegante che voleva restituire due pere, perché non godevano dello sconto che credeva lei, e allora il commesso non teneva la cassa né aperta, né chiusa, perché la tipa andava e veniva e aveva lasciato la sua roba lì. In quel caso, come mi è capitato in situazioni analoghe, mi sarebbe piaciuto farmi avanti e mettere io quei cazzo di dieci centesimi di differenza, con in più una moneta da due euro, e la raccomandazione in catalano: “Signo’, accattateve ‘na camumilla”. Poi mi ricordo che, qui, la camomilla si prende per il mal di stomaco, e non per calmarsi, quindi tutt’al più dovrei bermela io. La seconda volta nel supermercato in questione, un tizio sembrava aver scavalcato la fila (un commesso, però, sosteneva che il suo fosse un errore giustificato) e un’altra cliente sulla cinquantina gli aveva fatto i complimenti a gran voce, per poi concludere cinque minuti di esternazioni passivo-aggressive con la canzoncina: “Pu-to machi-rulo”. Cioè: maschilista di merda. E come sapete, io so’ femminista così, ma in quel frangente ho rimpianto assai il machete di cui sopra. Commento della cassiera: “E dicevano che da questa situazione saremmo usciti migliori…”. Io intanto sono uscita e basta, con la promessa di andare per sempre al Coaliment, con gli altri guiris: non escludo di essere stata solo sfigata, ma non sono pronta a rischiare psicodrammi una volta sì e una no, per un chilo di banane delle Canarie (con dieci centesimi di sconto, mi raccomando!).

E sapete qual è il bello? Che so di esagerare. Ne ho parlato con una psicologa autoctona, e quella mi ha snocciolato tutta una sua teoria sull’attaccamento insicuro che deve avermi caratterizzata nella prima infanzia, e sarebbe questa meraviglia qua. Anche io le voglio bene. A detta sua la mia forma mentis, tutta sintonizzata sul “non stracciare le gonadi al prossimo e pretendere lo stesso trattamento”, sarebbe sì una questione culturale, ma anche un’antica strategia di sopravvivenza. “‘Ndimeno?” ho risposto, sempre nel misterioso catalano che vi sto insegnando dall’inizio del post.

Però confesso che questa odiosa tendenza al “Coccosa?” mi ha insegnato molto: per esempio, che non è detto che il mio prossimo debba essere sempre una priorità! Spesso, nelle “buone maniere” che ci insegnano sul suolo patrio, tale priorità è solo di facciata. E non credete a me, ma a Manzoni: mo’ vi ripesco addirittura il Conte zio che dà la precedenza al padre provinciale, dopo averlo costretto letteralmente a mandare Fra Cristoforo a quel paese (cioè, a trasferirlo).

In secondo luogo, cambiare mentalità aiuta sia noi che gli altri a evitare i terribili problemi di comunicazione che ancora registro tra i miei educatissimi amici rimasti in patria: di solito, da queste parti “non le mandano a dire”. Io continuo a pensare che ci sia modo e modo di esprimersi, rispetto a un “tant de bo et fotessin un petard al cul” (che sospetto non abbia bisogno di traduzione), ma sono anche contenta di aver assimilato un pizzico di questa sincerità, piuttosto che continuare a ossessionarmi su come la prenderà la persona con cui sto a problemi.

So già cosa direte: ma scegliere di volta in volta, no? Purtroppo certi sistemi di pensiero arrivano in scomode formule “tutto incluso”, per cui all’inizio sembra che si debba prendere tutto il pacchetto. Poi, però, qualcosa cambia. Nei miei primi tempi all’estero, a vent’anni, mi si aprì un mondo quando un amico inglese chiamò “ipocrisia” ciò che mi era stato venduto come “saper vivere“. Però, una volta a Barcellona, sono stata sempre felice di offrire caffè a destra e a manca, in barba alla tendenza locale di dividere il conto fino all’ultimo centesimo. “Io sto provando a imitarti, ma i miei amici non ricambiano!” si lamentava una collega barcellonese all’università. Poi spiegai alla stessa collega che un compagno di corso un po’ insistente, e molto più grande di me, mi aveva riaccompagnata a piedi per chilometri, la sera tardi, e una volta sotto casa mi ero sentita obbligata a raccontargli una scusa per non invitarlo a salire. “Perché mai?” era insorta l’amica. “Non volevi farlo salire, dunque: arrivederci e grazie”.

Dunque, aggiungo io, si può spizzicare eccome, tra modi di vivere e culture diverse: anzi, un’opportuna scrematura migliora la vita. Adesso continuo ad accostarmi al muro se passeggio lenta, ma non intrattengo rapporti sociali che non mi interessano, ed evito a priori che a uno venga anche solo in testa di proporsi come accompagnatore, se non apprezzo il gesto.

“Sei diventata stronza!” commentò, dopo la mia seduta di dottorato a Napoli, una zia a cui avevo spiegato che non avrei preso un treno regionale e camminato mezz’ora a piedi (o rischiato una gravidanza indesiderata in un R2) apposta per augurare un buon ritorno a casa alla mia tutor catalana: la profe stessa mi aveva esentata, prima di tutto perché non concepiva proprio l’idea, e poi perché sarebbe andata all’aeroporto dopo una bella passeggiata con un altro collega in trasferta.

Quindi sì, quando ci vuole sono stronza forte, e vi consiglio di fare altrettanto.

Ve lo assicuro: non è mai troppo tardi per un po’ di sana stronzaggine.

Cacciaguida - Gustave Dore - WikiArt.org
Caro Cacciaguida, magari sapesse di sale “lo pane altrui”!

Sì, sono una persona noiosa, perché Dante l’ho portato perfino all’esame di Italiano 1 (“Ma sei pazza?”), quando tutti, per intenderci, optavano per la premiata ditta Machiavelli & Verga. Eppure, del Sommo mi restano i due colpi di fulmine iniziali:

  1. Francesca da Rimini che legge del “disiato riso” mentre viene baciato da “cotanto amante”, e Lancillotto e Ginevra devono essere bellissimi sulla carta preziosa del manoscritto; ma Francesca e suo cognato Paolo sono fatti di carne e ossa, e allora lui invece del riso le bacia “la bocca”, e lo fa pure “tutto tremante”! Galeotto il libro e chi lo scrisse, e tutti i libri che ci hanno messi in guardia dal pericolo di rifugiarci in un mondo alternativo, sperando così di “scappottarci” quello reale. Ma hanno voglia ad avvertirci, le castellane riminesi, o i cavalieri erranti che lottano contro i mulini a vento, e perfino le casalinghe ottocentesche della campagna francese… Il fatto è che noi ci caschiamo sempre. E noi abbiamo le storie, “quelli di là” hanno le armi. Dunque, scusate se me la immagino sempre con una punta di napoletanissima cazzimma, la romagnola Francesca, mentre conclude: “Caina attende chi a vita ci spense”. E salutame a Satana.
  2. A proposito… Il momento più esilarante di tutti, nel mio rapporto con la Commedia, risale addirittura alla manovra circense che Dante fa in groppa a Virgilio, una volta che saltano su Lucifero. Il poeta latino scende lungo i fianchi del demone, poi si gira, si aggrappa al pelo delle gambe e… “Vede che anche Lucifero indossa scarpe Nike!”. Questa era del mio compagno di banco, e sparata così in classe, alla terza ora, mi costò un principio di soffocamento per non scoppiare a ridere, e finire in quella Natural Burella che era l’ufficio del preside.

Ma chi voglio prendere in giro? Forse avete indovinato dal tenore filosofico di certi miei post, che il verso (e mezzo) che mi ha accompagnato di più nella mia permanenza all’estero è stato quel famoso “Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui”, che Cacciaguida profetizza a Dante. Soprattutto perché quella profezia è una balla mostruosa per una che, invece del pane toscano, è stata allevata a botta di pane cafone.

Ergo, per me è stata una tragedia, fin dal pane inglese imbustato che in Italia chiamavo pan carré, ma che un fidanzato troppo scrupoloso mi portava “fresco” dal supermercato di suo padre: voleva dire solo che la data di scadenza slittava di qualche settimana! A Barcellona, invece, la baguette deludeva sia me che gli amici francesi (ma va’), e la prima volta che mi sono decisa a comprare il pa de pagès, che tradotto era tipo “pane cafone” (ma comunque più insipido), la commessa me lo stava per mettere automaticamente nell’affettatrice. “No!” sono insorta. Come potevo spiegarle il sublime concetto di cuzzetiello, la tendenza a staccare con le dita l’angolino esterno della pagnotta?

Tant’è vero che ho accarezzato per anni l’idea di scrivere una raccolta di racconti dal titolo “Lo pane altrui”, con dentro storie italiane all’estero che fossero imbottite di baguette, pagnotte, mezzelune, pite, e le nuove panificazioni a cui ci siamo dovuti abituare noi “cervelli in fuga” (qualsiasi cosa voglia dire). Avevo anche cominciato a raccogliere storie, pensate un po’!

Anche perché mica è un concetto semplice: per me il pane barcellonese è stato più che altro il naan del Raval, quartiere d’immigrazione in cui quella sorta di pita fumante, fatta sul momento da Bismillah in un apposito forno, era molto meglio della baguette precotta che mi forniva “l’alunno di posteggia”, cioè il panettiere marocchino sotto casa. In compenso, alle maldestre avances dell’alunno di cui sopra, che era diciottenne, contrapponevo le risposte ben assestate della mia adolescenza napoletana.

“Eccoti la baguette, bella come te!”

“Mi stai paragonando a una pagnotta?”

“Vabbè, è bionda come te, però!”

Stavo per cominciare a scrivere di questa, e altre pagnotte, quando mi sono resa conto di qualcosa: sarebbe ancora più divertente se, invece di scrivere tutto io, lo facessimo insieme. Insomma, facciamoci i pani nostri, ciascuna o ciascuno parli per sé!

Che ne pensate? Lo scriviamo, ‘sto capolavoro?

Fatemi sapere, raccontatemi le vostre storie… E Cacciaguida, muto!

A mali estremi…

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Mettiamo le cose in chiaro: nessuno tiene più di me alla salute dei bidoni della monnezza.

Ritengo solo che, a piangere quelli e lanciare strali contro i cento che li bruciano, ci stiamo perdendo un po’ il punto della questione, cioè le migliaia di manifestanti che chiedono libertà di espressione. Ma il mio amore per quei bidoncini gialli, azzurri e verdi (pensati per riciclare plastica, carta e vetro) è al di sopra di ogni sospetto! Forse per credermi dovreste viverci voi, a venti metri dalla stazione della Polizia Nazionale: finiscono qui quasi tutte le manifestazioni che, da oltre una settimana, si tengono a Barcellona per la scarcerazione di Pablo Hasél. Indi per cui: io la spazzatura non la posso buttare. Hai voglia a fare i chilometri, hanno tolto i cassonetti dappertutto! Dovrei sconfinare in altri quartieri. Per fortuna, umido e indifferenziato li prelevano sotto casa ogni sera, dopo le otto. Ma, per esempio, in cucina mi si è formato un sacco enorme di bottiglie vuote: ancora il cava del mio compleanno e, soprattutto, la mia cola preferita, che ormai ordino a domicilio perché ne bevo a litri. E no, non è prevista la restituzione dei vuoti.

Tra i miei amici, quelli del Barricata Fan Club ci provano pure: “Ehi, se vuoi te lo trasporto io, il sacco: in mancanza di bidoni lo puoi sempre lasciare giù… Dev’essere pesante, e poi ingombra…”. E io: “Nun ce prova’!”. Quando guardo le dirette de La Vanguardia per scoprire cosa sta succedendo dietro l’angolo, mi verrebbe un coccolone a scorgere, tra le bottiglie lanciate contro gli scudi antisommossa, un’improbabile pioggia di Mate Cola: che tutto il quartiere si renda conto a un tratto di quanto sia infinitamente più buona dell’equivalente mericano? Nah. Sgamerebbero subito la, ehm, fonte originale.

Aneddoti scemi a parte, seguitemi per queste e altre amenità sulla Barcellona dei conflitti sociali! No, sul serio, tra un po’ pubblico un’intervista interessante. Intanto, no comment (*inforca gli occhiali da sole che no, ancora non si è comprata*): tutto quello che ancora c’è da dire l’ho già espresso in quest’articolo, pubblicato da Resistenza Civile. Sì, confesso che oggi ci ho da fa’, che preparo un manoscritto per questo concorso, e il pippone che vi ho appena scodellato era un invito più o meno subdolo a leggervi l’articolo. Già che ci siete, date una bella occhiata anche al resto della rivista, che è fatta bene!

No, dai, qui il messaggio più ovvio e trascurato di tutti è: la vita è questione di prospettive. E noi esseri umani tendiamo spesso a soffermarci sui dettagli inquietanti, così ci perdiamo la visione d’insieme.

Ok, la smetto con le pillole di saggezza e vi saluto con le mie bollicine (di cola): alla prossima!

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Così di botto, senza senso, fuori al Corte Inglés c’è una foto di Belén Rodríguez, che in Italia è solo Belén e qui ha centocinquantamila omonime, alcune molto più famose di lei.

Fa strano vedere la soubrette argentina in un angolo così “elegante” della mia vita, tanto elegante che l’ho ribattezzato “i bidoni del piscio”. Il fatto è che, a pochi passi dalla vetrina, i contenitori per la raccolta differenziata esercitano anche la funzione di bagni pubblici, visto che la toilette più vicina si trova direttamente in Avinguda de la Catedral. E guai se c’è maretta, o una manifestazione in vista: la polizia fa togliere i bidoni nel raggio di mezzo chilometro, e allora o vai in pellegrinaggio in altri quartieri, o cedi almeno il vetro agli amici ribelli che vogliono farci le barricate (e a me fa ancora un po’ impressione, la cosa).

Insomma, quello è un angolino del mio mondo e della mia vita in cui non mi sarei mai aspettata di trovare, così di botto e senza senso, un idolo della cultura pop italiana. Peraltro, la Belén “nazionale” era sul cartellone pubblicitario della DoDo, che come marca di gioielli mi era ignota: a quel punto, siccome il volto non era familiare alle passanti, poteva sembrare una marca “per signore”, come tutti i brenddd che esibiscono volti di donne maggiori di ventun anni (si sa, dai ventiquattro in poi siamo tutte tardone!).

Insomma, Belén decontestualizzata e sconosciuta, così di botto e senza senso, mi ha fatto sorridere e riflettere sui contrasti, e sulle sorprese di questa Barcellona tutta chiusa dal confinamiento: nel doppio senso di chiusa in sé stessa e chiusa al pubblico, visto che nel fine settimana non ci si può spostare tra i comuni.

Quello tra una Belén anonima e i bidoni del piscio non è stato l’unico contrasto curioso, negli ultimi tempi: mentre passeggiavo per il Gotico, così di botto e senza senso, è esploso un coro neanche tanto stonato che si esibiva in una versione a fronna ‘e limone de La Bamba. E io pensavo subito ai soliti Erasmus italiani, che magari scaldavano l’ugola in preparazione del consueto Faccela vede’, Faccela tocca’, mentre due emigranti latini di passaggio si chiedevano se in giro non ci fosse una festa di messicani.

Poco dopo, mentre mi perdevo alla ricerca di una gelateria italiana su cui circolano varie leggende (tipo che la gestirebbe un’ex pornostar), di italiano ho trovato solo Puccini, anzi, Rodolfo e Mimì, che duettavano per l’occasione: il tenore che si esibisce fuori alla Casa de l’Ardiaca aveva una collega soprano ad accompagnarlo, e non riuscivo a capire se fosse una passante, o un’altra finita a cantare in strada per la chiusura dei teatri. Allora ho pensato: da quanto tempo è morto, Puccini? Tra un po’ fanno cent’anni. Eppure ecco spuntare la sua Mimì in un angolino (senza bidoni) del Gotico, tranquilla e lieta come sempre. Scusate, mi è entrato un moscerino nell’occhio. E sono pure vegana, quindi cercherò di rianimarlo.

L’ultimo contrasto è serio, mi è capitato ieri mattina: una domenica iniziata presto, ma troppo pigra per farci qualcosa di buono. Tanto valeva finire di leggere, con venticinque anni di ritardo, I sommersi e i salvati: così imparavo il tedesco con Primo Levi… Inutile dire che preferisco le storielle che mi insegna Duolingo, e se ripenso al tedesco che imparo da Levi i moscerini diventano due. Però all’improvviso, così di botto, leggo nella luce fioca dell’e-reader il nome di Goethe. Goethe lì? In una pagina che parla di baracche, selezioni, e dell’assurdo rituale di rifarsi un letto tutto legno e spigoli? Sì, era proprio Goethe. Levi lo nomina con l’ironia che tira fuori ogni tanto, per precisare che il grande scrittore non avrebbe capito tanto il concetto di “controllatore di letti rifatti”: un prigioniero munito di cordino di precisione, che si vedeva assegnare questa mansione con un termine tedesco coniato ad hoc.

Ora vi confesso una cosa: da ragazzina schifavo Goethe e le sue affinità elettive. Però quel nome, schiaffato tra le descrizioni di materassi ripieni di trucioli e coperte sozze, mi ha portata subito altrove. Mi è parso di respirare l’aria del parco in costruzione di Eduard e Charlotte, e pure ho intravisto Ottilie che ci passeggiava: bella come Irma Grese, ma umana, molto umana (pure troppo).

Ed è facile scivolare nella retorica su queste cose, che poi arrivano sciami di moscerini e gli occhi sono fottuti. Ma davvero, in questo 2021 fatto di silenzio e saracinesche abbassate, e passanti con una pezzuola blu al posto della bocca, e volti familiari che sono diventati voci al telefono, in questo mondo strano che pure viviamo, è confortante vedere che una volta, sì, c’era il “controllatore di letti rifatti”, ma c’era pure Goethe, e Goethe non è mancato mai. Anzi, ricompare all’improvviso, così di botto e senza senso.

E allora, come si dice: finché c’è Goethe c’è speranza.

22 giugno 1994: Breve storia triste. C’è la festa delle medie, ma ho la febbre. Vado o non vado? Vado. E porto anche un’amica di un altro istituto, che ha litigato con le compagnelle sue (cit.) e si sente sola. Risultato: l’amica si mette col ragazzetto che piace a me, e la febbre mi schizza a 38.

30 gennaio 2021: Breve storia triste. Esco di casa e viene a piovere. Anzi, è proprio una tempesta. Mi riparo sotto una tettoia a Barceloneta e penso: corro verso casa o aspetto un po’? Aspetto. Finita la pioggia, anche se una masnada di gente va in direzione contraria alla mia, faccio una capatina in spiaggia.

Le foto che posto qui sotto sono un promemoria: a volte tentare nuoce, eccome, ma spesso è una buona idea. E quella storia di chi lascia la via vecchia per la nuova mi è sempre sembrata più una promessa che una minaccia. Sai quel che lasci: il divano di casa. Non sai quel che trovi: tipo, l’arcobaleno.

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I 10 Comandamenti di una comunicazione efficace

Due parole di aggiornamento sulla mia carriera di White Savior: mi sento a casa!

Ebbene sì. Ci ho preso gusto a trattare con queste persone che vengono dall’altro lato del Mediterraneo, anche perché fanno parte di una comunità ancor più discriminata della mia d’origine (sulla quale, nell’Anno Domini 2021, resta accettabile liquidare il razzismo con il classico “fatti una risata”). L’esperienza mi ha fatto tornare in mente una frase letta chissà dove, e che mi sembra sempre più fondata: ciò che la politica prova a unire con le tenaglie, la cultura separa, e forse il Sud Italia è più affine ai paesi dell’Africa mediterranea che al più continentale Nord. Senza scadere in facili cliché, il Mediterraneo meridionale unisce: crea famiglie allargate, affinità e nevrosi. Quindi io, in queste settimane, mi sono sentita nel mio ambiente d’origine, nel bene e nel male. Nel bene, per la gentilezza, la gratitudine, e la delizia: vedeste i manicaretti che mi sono stati offerti per un gesto minimo di solidarietà. Con tanto di ringraziamenti del proprietario del ristorante.

Tra gli aspetti negativi, c’è l’inconcludenza che ha accompagnato tutto questo: i progetti di collaborazione abbozzati e mai cominciati, i grandi proclami a cui è seguito il silenzio. Intendiamoci, alcune iniziative più che lodevoli salveranno anche una vita o due, che è tantissimo: ma non puntano mai alla giugulare, non arrivano mai a gridare che è l’intero sistema a essere sbagliato.

Insomma, a quest’ora avrei dovuto fare “l’angelo biondo” in non so quante interviste mai portate avanti, e avrei dovuto curare una pagina interculturale in italiano che non vedrà mai la luce, oltre a presenziare a una riunione antirazzista che non si è mai tenuta.

Da una parte è un sollievo, vedete sopra: povera la comunità che ha bisogno d’eroi. Specie se si tratta di un’eroina dal valore dubbio, proveniente da una comunità meno discriminata. Dall’altra parte mi sono ricordata dei miei vent’anni paesani, e dei progetti culturali che dovevano spaccare tutto, ma che al massimo finivano per portare due lire a quelli che mi sfruttavano con la promessa di un tesserino di pubblicista, o con quella ancora più volatile di star lavorando per una giusta causa. Senza vedere un soldo.

Già, i soldi. Una matrice comune è quella, dai due lati del Mediterraneo: i soldi mancano, combattere per un mondo più giusto è un’operazione di volontariato che non tutti si possono permettere, in una società governata dal denaro. Si dà per scontato che è una prestazione gratuita, e che è volgare anche solo pretendere un compenso, per sì nobile causa! In un contesto del genere, in effetti, è difficile fare grandi cose.

In secondo luogo, nelle mie interazioni con i nuovi “compagni di lotta” c’è un grosso difetto che non mi scrollo di dosso, perché, plot twist, intanto ero in contatto con i compagni di lotta italiani, o quello che ne rimaneva: adulti un po’ disillusi, ma non del tutto, che mi parlavano di problemi di tutt’altra natura. Poco importa se fossero questioni lavorative o sentimentali.

In tutte queste comunicazioni incrociate, e nelle storie che trattavano, c’era un grande assente: la comunicazione in sé, intesa come “parlare chiaro e senza trucchetti”. In inglese il dire e non dire si chiama “play games“, ed è più o meno consentito nelle fasi di corteggiamento, che ormai avvengono soprattutto via app. In italiano credo si dica: “Dire a nuora perché suocera intenda”. Insomma, è la prassi di chiedere indirettamente a un datore di lavoro recalcitrante quando e se ti pagherà, invece di ordinargli di “Cacare i denari”. Come se i sottintesi portassero poi a vederli, questi denari. Oppure è la tendenza a vivere con una persona che il tempo ha trasformato in estranea, ma non osiamo chiederle perché: per quanto ne sappiamo, la persona che credevamo di amare potrebbe desiderare addirittura il matrimonio, o al contrario la separazione! Eppure, non sappiamo fare altro che provare a decifrare il suo comportamento, invece di sederci insieme a un tavolo e chiedere: “Oh, come stai?”. Io capisco pure la tentazione di scansare le conversazioni difficili come se si trattasse di fossi in autostrada: avviene per l’idea, che abbiamo assimilato insieme al latte materno, che sia assurdo chiedere esattamente ciò che vogliamo.

L’erba voglio, si sa, non cresce neanche nel giardino del re. L’erba vorrei, però, è facile da trovare in giro. Abbiamo quest’idea, tipica del pensiero magico, che se comunichiamo esattamente ciò che vorremmo, non l’otterremo mai. Chiedete e non vi sarà dato. Suggerite e non vi sarà dato comunque, ma vi risparmiate l’onta di aver chiesto. Una volta, una psicologa mi prestò un libro sulla comunicazione efficace, e mi cambiò la vita. Non era una roba da pubblicità del balsamo per capelli, come quelle che trovate su Google: era proprio un manuale per imparare a comunicare sentimenti ed esigenze alle persone a noi più vicine. In pratica, scoprii sfogliandolo, era un libro di grammatica! Insegnava a mettere insieme soggetto, predicato e complemento. “Mi sento triste perché tu hai fatto questo, quindi temo che stia succedendo quest’altra cosa, e la mia soluzione sarebbe questa. Tu che ne pensi?”. Una questione semplice come l’uovo di Colombo.

Eppure quello di suggerire, non dire, o mentire addirittura, è un comportamento talmente radicato nelle esistenze di tanti che non ce ne accorgiamo nemmeno. Nelle interazioni amorose, poi, abbiamo imparato che bisogna affidarsi al carisma e sintomatico mistero del corteggiamento, altrimenti non valiamo niente. Ok, se proprio ci tenete fate pure i giochetti da inizio relazione, ma poi si diventa sinceri, vero? Altrimenti impariamo a “non dire” all’inizio, e continuiamo così per il resto della relazione.

Io ho lasciato che questo mi rovinasse la vita troppo a lungo per farlo ancora. E poi, giacché siamo in vena di comunicare, vi confesso un segreto: il non detto ci ossessiona. Un problema o un’esigenza che dipende da altri, ma che non comunichiamo, ci rosica via tempo prezioso che potremmo passare a essere felici. Invece, se proviamo a comunicare le nostre esigenze, qual è la cosa peggiore che può succedere? Scoprire che quella persona non può o non vuole aiutarci a soddisfarle. Peccato! Ma anche: benissimo. Abbiamo il tempo di girare pagina, piuttosto che vivere comunque nella piena insoddisfazione. Possiamo addirittura prenderci il tempo di cambiare esigenze, che a volte succede anche quello.

Provate! Altrimenti vi succederà come a me, che mi vedo coinvolgere cinque minuti in chissà quale progetto meraviglioso per salvare il mondo, e poi lo vedo sfumare perché nessuno ha il coraggio di dire che ci mancano il tempo, le energie e i soldi.

Peccato sul serio, perché a volte basta ammetterlo. Poi passeremo a dedicarci a qualcosa che possiamo fare davvero.

4 Truths You Need To Know About 'Sale' Items

Sono spacciata. M’ero dimenticata che qui a Barcellona la ricorrenza più importante è l’arrivo dei Magi: in molte case i regali si fanno il 6 gennaio, più che il 25 dicembre. Ergo, sono spacciata. Fuori casa ho le file che si snodano per cento metri, per comprare indumenti da grande magazzino che dureranno un anno esatto, oppure oggetti di elettronica che, comunque, tra un anno verranno sostituiti dalla nuova versione. Poi cominceranno i saldi.

Quanto a quelli, però, non ci serve niente, grazie: vengo già scontata. Nel senso che, specie durante le feste, il mio parco amici mi dà spesso per tale, tra allarmi rossi e appuntamenti annullati!

E vi assicuro che mi sento lusingata, in un certo senso: vuol dire che, scontata o meno, vengo percepita come un prodotto di qualità. Una… solida realtà, direbbe quella di Immobildream! Sono scontata nel senso che mi sono accorta che, nel “casa mia o casa tua” che quest’anno accompagnava non appuntamenti galanti, ma feste molto casalinghe da passare con famiglie meno tradizionali, quello con me era un incontro che si poteva “rimandare in un altro momento”, se un’urgenza chiamava altrove. Ribadisco: è una cosa buona almeno in un aspetto. La mia famiglia d’adozione mi percepisce come una roccia (e questo particolare la dice lunga sulla solidità degli altri membri…) e quindi sa che sarò ragionevole se una vicina dei diretti interessati ha la mamma col covid e vorrebbe sostegno proprio in Nochevieja (cioè, il 31), o se l’amica che voleva passeggiare a caccia di luminarie carine decide di avere troppo freddo per arrischiarsi a mettere il naso fuori.

Soprattutto, sanno tutti che io sono un’orsa, che è un modo divertente di porre la cosa: un altro più realistico (spero) è che me ne sto molto bene per conto mio. Quindi, se mi salta un appuntamento oppure ho passato un pomeriggio a sostenere un’amica in crisi, mi faccio due risate con l’horror paesano di Alex de la Iglesia e mi sento bene di nuovo.

Sì, il mio status di “persona scontata nella vita dei miei affetti” è una lusinga, ma allo stesso tempo è allarmante. Non tanto per me (che appunto so’ orsa) ma per gli affetti. Innanzitutto, perché dà ancora un’idea delle gerarchie presenti nei nostri vincoli. Non essendo io poliamorosa e non avendo parenti a Barcellona, sto parlando soprattutto di legami di amicizia. E nonostante i buoni propositi sull’abbattimento delle gerarchie relazionali, le “urgenze” si verificano soprattutto in relazioni amorose di vario tipo. Dunque in questi casi si corre a risolvere il problema e si parcheggia l’amica, “che tanto capirà”.

In secondo luogo, appunto: tutte ‘ste urgenze, sicuro che ne valgano la pena? Per quale motivo le montagne russe ci interessano più di una serata tranquilla tipo cena-musica-due chiacchiere, con una persona che amiamo? E non facciamo i banali, non sempre il giretto al luna park delle famose montagne russe prevede attività sessuali! Sarà che le iniezioni di adrenalina sono una droga che sembriamo disposti a spararci senza limiti, e il privilegio di rilassarsi e godersi una cenetta tranquilla, farcela “bastare” come se non potesse essere il massimo, è tutt’altro che scontato: anzi, ce lo godiamo solo quando ci diamo il permesso di farlo. Ma questo permesso, a volte, è più arduo da ottenere delle licenze abitative a Barcellona centro!

La monogamia seriale è questo, no? Passare da un giro di montagne russe a un altro, quando l’adrenalina iniziale lascia il posto al combo pizza-cinema, anche se in versione covid. Così come, se ti ritrovi per un tempo prolungato a parcheggiare un’amicizia (tanto è scontata…), forse non ti stai facendo un grande favore: la tua vita è uno stato di tensione continua, a volte piacevole e a volte no.

Come proposito di anno nuovo, quindi, direi che ci stia benissimo l’idea di dare per scontato che

  • gli affetti si coltivano, tutti;
  • da un po’ di tempo abbiamo già abbastanza stati di allarme per dovercene creare altri;
  • gli allarmi continui potrebbero indicarci che certi affetti non ne valgono la pena.

E comunque, quando vediamo che in una relazione di qualsiasi tipo ci resta più amarezza e tensione che altro, c’è una possibilità incredibile, inedita, originalissima: parcheggiare la relazione. Oppure trasformarla in una versione innocua, senza accanirci sull’esito che avremmo voluto e non si sta verificando.

Se non la date troppo per scontata (che a nessuno piace svendersi!), l’amica vi attende con una cenetta alla buona, una playlist di vostro gradimento, e una spalla su cui piangere. Anche se lei preferirebbe che su quella spalla vi ci addormentaste, magari dopo aver visto insieme l’ultimo episodio di Cobra Kai.

(Adesso sembra incredibile, ma nel 2020 succedeva anche questo. Curioso quanto nelle canzoni della parata ricorra la parola “il·lusió“.)

Amazon.com: Winged Gargoyle BUNNY in the Foggy Woods: Handmade
Primo piano del boschetto della mia fantasia, disponibile su: https://www.amazon.com/Winged-Gargoyle-BUNNY-Foggy-Woods/dp/B015YBE8AM

Forse pensate che io esageri, quando dico che la mia vita è surreale.

Allora vi spiegherò che ieri stavo in fila da cinque minuti in una cartoleria catalana nel Raval (e già così, credetemi, fa un po’ ridere) e aspettavo che il tizio davanti a me comprasse un gargoyle.

Quando ero entrata io, il ragazzo (capelli lunghi, occhiali con la montatura dorata, pantaloni della tuta targati AC/DC) si era già fatto prelevare la statuetta di pietra nera dagli scaffali pieni di orologi vittoriani, e cappelli alla 4 Non Blondes con occhiali incorporati. In attesa che la cartolaia gli ultimasse il pacchetto regalo, il giovine spiegava in catalano che la sua ragazza adorava le cianfrusaglie neogotiche, e quello era il suo regalo di compleanno.

L’anziana cartolaia mi dava più l’impressione di una che ti consiglia il gargoyle giusto (pur schifando il prodotto) piuttosto che quella di una che attiva computer e mi stampa le bollette della luce, che era il motivo per cui ero lì. Il Comune di Barcellona, infatti, mi aveva appena avvisato per raccomandata che avevo dieci giorni per dimostrare che vivevo proprio dove avevo dichiarato di vivere, cioè a casa mia. Ogni tanto lo fanno.

Ribadisco che, da quando sono entrata io a quando è uscito il tizio (che aveva già scelto il suo cazzo di gargoyle quando ancora mi trovavo fuori alla cartoleria), sono passati cinque minuti d’orologio. La cartolaia ci ha messo tutto quel tempo a fare il pacchetto, piazzandosi bene nella mia hit parade di negozianti locali: adesso la tengo giusto sotto quelli che mi fanno aspettare al bancone mentre parlano al telefono con la Marieta del Mercat, e quelle che sconfiggono il patriarcato dibattendo con la cliente in fila alla cassa prima di me (ogni riferimento è puramente casuale). Grazie agli incidenti che vi sto per raccontare, la signora ha superato pure quelli che mi sbagliano due copie di chiavi su tre, oppure chiudono il negozio un po’ a cazzo di cane, quando dicono loro. Già vi vedo sul piede di guerra a difendere la lentezza e il commercio locale, e voglio pure darvi ragione, ma fate una cosa: contate esattamente cinque minuti d’orologio, e vedete se non sono tanti, per fare un pacchetto.

Per ingannare il tempo, con la maturità di donna adulta che mi contraddistingue ho iniziato a fare le boccacce all’uomo che mi aspettava fuori, e che di lì a poco, esasperato, si sarebbe messo a leggere in piedi davanti al negozio. Sì, era il mio compagno di quarantena, e a dirla tutta mi aveva appena regalato a sua volta un nuovo momento WTF: un’oretta prima era seduto con me a una panchina del porto, tra volanti della polizia che scorrazzavano in cerca di un cagnolino smarrito, e mi aveva spiegato che… avevo presente il lavoro d’ufficio che lui doveva iniziare lunedì? Ovvio che avevo presente: per sostenere il colloquio online, l’imbranato mi aveva colonizzato tre dispositivi elettronici per un’intera giornata, bestemmiando in videoconferenza al livello massimo della sua volgarità (cioè, “Oh, shoot.”). Ebbene, aveva proseguito il compagno di quarantena, il fatto era che alla fine non s’era presentato più a lavorare. S’era perso sia il primo giorno di training, che il secondo: aveva rinunciato, insomma. Perché?, avevo chiesto neanche troppo meravigliata. Perché, mi aveva risposto lui, il giorno prima aveva fatto un incubo. Grazie a quello aveva capito che non poteva. Non sopportava di restare nove ore davanti a uno schermo: detestava gli schermi. Detestava la tecnologia. Voleva andare a lavorare per qualche mese come volontario in una fattoria in cambio di vitto e alloggio, finché non finiva questo lockdown di fatto: così almeno finiva lui di scrivere questo benedetto resoconto sulla sua precedente vita in strada.

Ora, il compagno di quarantena va dicendo questo da un anno, ma intanto che lui si decide a poggiare la penna sul quaderno (figurarsi se ha un computer!) io sono alla quarta stesura del mio resoconto sulla sua vita in strada. Si chiama Sam è tornato nei boschi, è un po’ romanzo e un po’ una cronaca delle peregrinazioni di un senzatetto “per scelta”. Conoscete qualche casa editrice folle che me lo pubblichi?

Vabbè, come non detto.

Tanto, ieri, il massimo che mi toccava stampare erano le cavolo di bollette di casa mia, giusto per dimostrare al comune di Barcellona che sono io a pagarle (un metodo di verifica infallibile, peraltro). Mi vergogno quasi a comunicarvi l’ovvio, ma la stampante della cartolaia s’è inceppata alla fine della prima stampa: dunque, mentre la negoziante strappava via brandelli di carta dalla macchina, ho avuto tutto il tempo di scoprire dai quattro fogli superstiti che la compagnia della luce mi attribuiva ancora l’indirizzo che avevo nove anni fa, proprio nel Raval. Per risalire al mio indirizzo attuale bisognava andare a pagina due della bolletta, e una banalità del genere, al Consolato italiano, mi aveva spostato di ben tre mesi una pratica importante. Il Comune di Barcellona avrebbe mai uguagliato questi livelli di incompetenza?

In compenso, la breve autodichiarazione che allegavo alle bollette della luce, e che era uscita per ultima dalla stampante ormai tornata in sé, presentava due o tre parole attaccate l’una all’altra, come l’iscrizione su un’anfora romana. Ebbene sì: l’unica cartoleria aperta nei pressi dell’Università di Barcellona stampa ancora in doc, invece che in docx. Scusate, in tempi normali vado a stampare in posti in cui non è necessario salvare in pdf una mia dichiarazione sul fatto che vivo davvero a casa mia!

Nell’attesa, almeno, il compagno di quarantena progettava un piano B per sfuggire agli sche(r)mi, che prevedeva un suo ritorno provvisorio in Inghilterra (nota nazione poco digitalizzata). Io, invece, m’ero resa conto di che giorno era. Erano passati esattamente sette anni dalla crisi più nera della mia vita: una roba che mi aveva fatto entrare in abiti che sarebbero stati stretti a Dolce Memole, e svegliare alle sei del mattino per intonare un coro a una voce sola di lamentazioni in assiro-babilonese. Non fraintendetemi: oggi la mia vita è sempre una sit-com, come potete notare, ma rispetto a sette anni fa è il paradiso. Sette anni fa non mi accompagnavo solo a gente folle che potesse auspicare un lockdown in fattoria, ma a gente folle che perdipiù mi disprezzava pure. E magari non dovevo dimostrare la mia esistenza al Comune di Barcellona, ma in compenso provavo a spiegare ai miei amici che, nonostante le apparenze, la mia nuova casa non era popolata da fantasmi (o da gargoyle, se era per questo). Oppure chiarivo al robivecchi pachistano, a cui regalavo le atroci statuine del vecchio proprietario, che i santi non andavano appesi per l’aureola.

Una volta uscita dalla cartoleria, redarguivo pure il mio matto del momento: non tornare al tuo paese, dicevo, che sempre in un bosco finisci, e quelli inglesi sono più freddi delle pinete di qua.

E se il comune decide che non vivo più a casa mia, è la volta buona che in un bosco ci finisco anch’io.

Il boschetto della mia fantasia non sarebbe male, specie adesso che se ne cade di gargoyle in pietra nera.

Nessuna descrizione disponibile.

A volte mi sento assediata dal tempo.

Mi sento come se, delle mille cose che potevo fare e dei mille luoghi in cui potevo essere, delle tante persone che volevo conoscere, mi rimanesse un fazzoletto di vita che sembra ancora spazioso solo perché non se ne vede la fine, tanto è stretto e lungo: ma, se ti ci incammini, scopri che porta a un solo posto.

Questo pensiero è l’unica concessione “angosciata” che ho fatto alla quarantena, che altrimenti mi è parsa tranquilla e in fondo generosa: un’alternativa che avevo alla prospettiva di cadere malata, io che avevo pure la fortuna di non patirci la fame.

Ne parlavo ieri in spiaggia con un’amica: del privilegio di aver usato la quarantena per stabilire le mie priorità, di aver accettato quello che forse non farò mai, di aver accolto con gioia quello che posso fare ancora.

Vivo in un’epoca che è triste per molti e nera per tanti, ed empatizzo coi miei simili, io che a starvi a sentire sembro sempre starmene in disparte o prendervi in giro: osservo con curiosità le piccole cose che mi richiamano l’attenzione anche quando mi spaventano.

Venerdì scorso, per esempio, osservavo una camionetta della polizia in fiamme giusto al centro di Via Laietana, tra scoppi che avevo interpretato subito, forse a torto, come di proiettili ad aria compressa. Davanti a quel fuoco ho avuto paura come mai in dodici anni di vita a Barcellona, a parte quella volta in cui, in una piazza avvolta nel fumo, una ragazza dai capelli neri raccolti sulla nuca aveva provato a fermare i gruppetti di manifestanti in fuga, che rischiavano di scontrarsi tra loro come in uno sketch di Benny Hill. “Inutile correre” la ragazza quasi rideva, tra gli spari e le sirene. “Verranno da tutte le parti. Tanto vale che restiamo qua ad aspettarli.”

Venerdì, invece, io non volevo aspettare proprio nessuno.

Filavo a casa tra i bengala e quegli altri scoppi che non sapevo identificare. Correvo e scattavo le foto sfocate che fanno parte del mio compromesso con la terra in cui sto ora: non ti capisco, ma provo a raccontarti.

Poi avrei postato quelle foto, qualcuno avrebbe commentato che “amo il pericolo”. No, amo le storie. Raccontate con ogni mezzo di comunicazione. Non devono essere originali, anzi: niente mi affascina quanto una storia raccontata da più voci, scritta o diretta da più mani. Mi ricorda quanto sia tutto sfumato, passeggero. Quanto sia meglio così.

Per esempio, c’è una strada, ai confini della città. Da un lato è Barcellona, dall’altro lato non si può, non si deve andare, non nei festivi. È questione di attraversare, di spostarsi qualche numero civico più in là. Il mio coinquilino doveva andare sabato pomeriggio dalla parte sbagliata della strada, da una ragazza, a fare i dolcetti dei morti.

Però venerdì sera, quando era tornato puntuale con l’inizio del coprifuoco, il coinquilino sbraitava con quelli che avevano acceso i fuochi in strada: non erano i suoi, erano soprattutto negazionisti e ultrà del Barça. Non chiedevano sussidi e leggi perché la guerra al virus non diventasse una guerra ai poveri: facevano casino e basta, e mettevano nei guai anche les companyes del coinquilino (qui è diffuso il femminile come plurale generico). In seguito allo sgombero di un centro sociale era stata convocata una manifestazione proprio questo sabato in cui lui, che in fondo aveva già dato partecipando al corteo di lunedì, doveva andare a fare i dolci dei morti. Ma dopo quel venerdì di tafferugli ultrà, la polizia sarebbe andata agguerritissima alla manifestazione dei suoi: il coinquilino doveva sostenerli, e almeno quel sabato doveva rinunciare alla ragazza che viveva dall’altra parte della città, e ai suoi dolcetti.

Il giorno dopo, invece, lui era già con la mascherina poco dopo mangiato: andasse per i dolcetti, che di questi tempi è meglio prendersi tutte le gioie disponibili. Ottima scelta, perché almeno stavolta la potenziale guerriglia era stata una tempesta in un bicchiere. Alla manifestazione ci sarei finita io, solo per constatare che già un’ora prima dell’inizio c’erano quindici camionette e due ambulanze.

Nessuna descrizione disponibile.

Un’ora dopo l’inizio, quando ripassavo di lì al ritorno dalla mia solita dose di vitamina D, al massimo si accendeva qualche fiaccola dopo la consueta lettura dei comunicati, con tanto di invito alla folla a scansarsi durante l’operazione. La guerriglia sarebbe avvenuta più tardi, lontano da me, e non l’avrebbero condotta quei quattromila presenti in piazza (millecinquecento “per la questura”), ma una ventina di facinorosi, che ovviamente sarebbero finiti sui giornali come principale evento della serata.

C’è gente a cui piace raccontare sempre la stessa storia.

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